OCCHIO: degustazione, esegesi...   ESPRESSIONI: visioni, letture, arte...

mercoledì 31 agosto 2011

rinunce

Le laboratoire de l'angoisse
1971

Francia

Regia: Patrice Lecone
Scritto: Patrice Leconte

In un laboratorio, l'inserviente Antoine è perdutamente innamorato di Mademoiselle Clara, unica donna presente fra le fila di scienziati dalle barbe fluenti. La sua fissazione non ricambia, nonostante lui cerchi in tutti i modi di mettersi in evidenza, aiutando con fervore nelle mansioni lavorative. Non riesce neanche ad... incantarla, l'immagine di lei rimarrà chiusa in una dimensione esaltatrice. La cosa proseguirà in maniera ossessiva, e l'uomo, distratto dalla presenza, combinerà pasticci di ogni genere con gli strumenti del laboratorio, arrivando anche a farsi del male tramite contatto con le sostanze chimiche; il dolore non verrà avvertito, troppo forte è la passione. In conclusione, se lei non concederà la sua mano sarà lui a farlo...
Rappresentazione, più che dell'amore, dell'uomo sottomesso, piegato, senza dignità né orgoglio, che arriva ad annullare se stesso in nome di un interesse. L'oggetto donna svetta su altre necessità, è un trionfo di istinti primordiali. Non viene mostrato come agiscono gli altri colleghi, ma è pensabile anche una tipicissima situazione in cui la solitaria presenza muliebre è colmata di attenzioni interessate da parte di tutti, con tanto di tattiche falsità per arrivare allo scopo, spersonalizzazioni, che non fanno altro che ledere sul piano dell'uguaglianza. Oppure, si spera, gli altri soggetti vogliano un minimo di bene a loro stessi...
Se si arriva a distruggersi psicologicamente e fisicamente a cosa è utile un rapporto di coppia?
Seconda opera di Leconte, di quando ancora non aveva deciso di dedicarsi anche al ruolo di operatore di ripresa, per essere ancora più addentro.

sabato 27 agosto 2011

parzialità

Quante volte... quella notte
1972

Italia
Regia: Mario Bava
Scritto: Guido Leoni, Mario Moroni, Carl Ross


In questo blog, incredibilmente, non si è mai parlato di Mario Bava. I motivi però esistono e sono la consapevolezza che ormai si è detto quasi tutto sul suo conto (esiste, fra altre pregevoli pubblicazioni, anche un tomo biografico di oltre mille pagine, scritto dallo statunitense Tim Lucas), e la presenza di una sorta di timore reverenziale; il maestro potrebbe essere, anche se siamo contrari a dichiarazioni assolutiste, il cinematografaro preferito di chi scrive. Vogliamo comunque fornire un affondo tramite questo titolo, appartenente alla cerchia di quelli meno famosi.
Commedia a tinte erotiche, che fa della raffinata confezione il suo forte. Fascino pop, del tipo che ha trovato maggior fortuna in Diabolik (1968), ma che qui non è da meno, anzi, si erge a sostegno principale della pellicola. Le presenze, in particolar modo quelle "agghindate", formano un tutt'uno artistico con la scenografia, una specie di reminiscenza degli attori espressionisti che si uniformavano allo scenario. Plauso anche a scenografo e costumista (Blanda), quest'ultimo avrà fatto felici gli estimatori di moda del tempo e aggraderà quelli attuali appassionati di vintage.
La vicenda, cui Mario non ha partecipato in sede di scrittura, è meno debole di quanto si legge in altre sedi: una storia notturna raccontata da quattro prospettive diverse, con tanto di spiegazione accademica circa la soggettività. Non assenti momenti ingenui ed ironia opinabile, ma il maestro ci metta una pezza tecnica. Uso magistrale della camera, in particolar modo nell'ambiente ristretto dell'appartamento fulcro del tutto. Lo zoom, strumento di semplice correzione di ripresa in mano a molti, con Bava diventa arte, una sua nota firma adattata perfettamente ai contesti. Angolazioni, altezze, tipo di piani, sono, senza mezzi termini, esempi per chi vuole studiare nel campo della ripresa cinematografica e non. Il regista non è accreditato alla direzione della fotografia, ma vi ha partecipato insieme al più volte collaboratore Antonio Rinaldi.
Gradevoli le musiche di Lallo Gori, tassello di tante produzioni "di genere".
In realtà il film è stato girato nel 1969 e l'atmosfera del periodo c'è tutta.
È conosciuto anche come Quattro volte... quella notte, tra l'altro traduzione letterale del titolo per la distribuzione all'estero.

mercoledì 24 agosto 2011

due primati

Quali sarebbero queste due vicende prime?

Le manoir du diable, del 1896, ad opera dell'immenso Georges Méliès è considerato, non a torto, il primo horror della storia cinematografica. Gli stilemi ci son tutti: luogo infestato, presenze demoniache, scheletri e pipistrelli, con tanto di finale esorcizzante.
È un Méliès ancora acerbo, che sperimenta tecniche in seguito più affinate. Il montaggio per creare sparizioni ed apparizioni è a tratti buono ad altri confusonario, lo scenario è scarno. Globalmente la resa è comunque soddisfacente, ancora non si raggiungeva il Novecento e tutto ciò che viene mostrato è altamente avveniristico. La trama è ben articolata, nei circa tre minuti di durata, ha senso e al tempo sicuramente poteva portar tremori fra le platee.
Il secondo primato? Un esordio di presunto plagio cinematografico, ad opera di George Albert Smith, con il suo The Haunted Castle, arrivato nel 1897. Smith era una personalità eclettica, dedita a tante mansioni, nonché inventore del sistema di colorazione filmica nomato Kinemacolor.
Nella sua pellicola compaiono forti analogie con l'altra, in primis per l'aspetto della scenografia e per il tipo di presenze che l'infestano. La durata è però ridotta ad un terzo dell'altra opera ed il finale è diverso. Tecnicamente molto più semplice, uso base del montaggio e apporto "indiretto", senza che venga manipolato in scena, del background.
A complicare il tutto c'è il fatto che Le manoir... è stato proiettato in Gran Bretagna proprio sotto il nome di The Haunted Castle.
Ma la soluzione dell'enigma è nella conoscenza fra i due artisti, che possono benissimo aver scambiato idee poi applicate da entrambi, inoltre, nel 1902, hanno collaborato alla realizzazione della pellicola Le couronnement du roi Édouard VII.
Un'altra curiosità: il film di Smith potrebbe essere il secondo horror della storia, ma del 1897 sono anche L'auberge ensorcelée, L'hallucination de l'alchimiste e Le cabinet de Méphistophélès, sempre con richiami d'orrore e sempre di Méliès. A sciogliere l'enigma dovrebbe essere il mese di uscita, ma sono dati difficili da reperire.

martedì 9 agosto 2011

ipofisi molesta

Собачье сердце (Sobachye serdtse)
1988

Unione Sovietica

Regia: Vladimir Bortko

Soggetto: Mikhail A. Bulgakov

Sceneggiatura: Natalya Bortko


Continuando il discorso Bulgakov, passiamo alla rappresentazione di un altro classico: Cuore di cane. Produzione in due parti degli studi Lenfilm, destinata alla televisione proprio come lo sceneggiato italiano di Ugo Gregoretti Uova fatali. Eccezionalmente fedele, tranne che per alcune piccolezze che andremo a riassumere più in là, dai dialoghi all'idea scenografica, fino agli appellativi.
Siamo in pieno campo sci-fi, quello ripieno di satira, vicino alla commedia. Gli scritti "bulgakoviani" troppe volte sono stati descritti fin troppo superficialmente, più volte l'artista è stato strumentalizzato, senza mezzi termini. Magari siamo noi ad avere una diversa opinione, ma non facciamo mistero di essa. In quest'opera non si salva nessuno, né la società sovietica ormai male incanalata, distante dai buoni propositi innovativi, ormai in controrivoluzione per cause varie e pregna di retorica forzata, né i borghesi niente affatto sradicati, né i singoli individui e la loro intrinseca cattiveria, né la scienza, a tratti colma di deliri di onnipotenza. Il cane trasformato in uomo, Poligraf Poligrafovich Sharikov, è un delinquente, non di certo un socialista, menefreghista, che non si fa problemi a rubare nella cassa destinata all'acquisto di beni in comune e non supporta Engels. Il professor Filipp Filippovich Preobrazhensky, per quanto bravo medico di fama internazionale, nonché persona dalla capacità autocritica e non violenta, è egoista e pedante, pieno di sé, a cui non si può parlare di uguaglianza secondo concetti quali «da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni». Il suo assistente, dottor Bormenthal, è sì pacato e gentile, ma anche troppo succube del professore. Si salva solo il buon cane Pallino pre operazione, con prerogative istintive, ma umile, per nulla pretenzioso, oculato e profondo di giudizio; se la società fosse stata di "pallini" la rivoluzione avrebbe potuto avere il suo seguito in terra russa e al di fuori. Insomma, questa versione TV del romanzo induce agli stessi spunti della lettura; se ci si ferma a riflettere sull'avventatezza delle scienza che si è spinta troppo in là, su situazioni sociali del XX secolo, vuol dire che il lavoro è di gran pregio.
Dicevamo delle differenze: nel romanzo Bormenthal non incontra il personaggio della dattilografa nel cinema, come avviene in TV, né vi è il momento in cui Sharikov viene mostrato al pubblico e si esibisce in uno show con la balalaika. In più, la scena della seduta spiritica e la sequenza del circo sono prese da altre opere di Bulgakov, citazione eseguita anche con l'inserimento del nome di uno dei due scienziati intervenuti a vedere il "miracolo": Persikov, come lo studioso di Le uova fatali.
Il direttore della fotografia, Yuri Shajgardanov, ha preferito il bianco e nero (nella versione in nostro possesso v’è un bellissimo seppiato), per dare l'idea di antico. Formato 1.33:1 televisivo e niente virtuosismi di ripresa, presente una discreta staticità, che però non appesantisce la narrazione, dà invece un tocco stilistico intellettuale; idem per il montaggio. Azzeccati i caratteri, in particolare Poligraf Poligrafovich, interpretato da Roman Kartsev.
Vincitore del premio per la fiction del Prix Italia del 1989.
Bortko tornerà nuovamente su Bulgakov nel 2005, con una serie TV in dieci episodi dedicata a Il maestro e Margherita.

martedì 2 agosto 2011

il rosso sbagliato

Uova fatali
1977

Italia
Regia: Ugo Gregoretti

Soggetto: Mikhail A. Bulgakov

Sceneggiatura: Ugo Gregoretti


Sceneggiato televisivo tratto dall'immenso lavoro di Bulgakov, spesso ricordato insieme all'antecedente e notoriamente anch'esso bulgakoviano Cuore di cane di Alberto Lattuada, non originariamente per la TV.
Diversamente da Il segno del comando e dintorni, qui il taglio non è fosco, ma con una persistente ironia, che fa un eco perfetto all'opera originaria. Le interpretazioni sono caricate a dovere, sublime Gastone Moschin nella parte dell'isterico Pérsikov, non da meno il suo assistente Ivanon (Mario Brusa) e via via gli altri: Alessandro Haber interpreta il giornalista Bronskij, Santo Versace Pankràt, altri ben in ruolo, essenzialmente nomi non troppo noti, dediti principalmente alla televisione. Non lasciamoci però ingannare dall'apparenza disimpegnata, la recitazione è di ottimo stampo teatrale, con i suoi tempi cadenzati, i silenzi e la mimica facciale; è palese la ben nota maggior qualità delle produzioni RAI del tempo, poco spazio alle improvvisazioni e allo sbaraglio generale.
La sua parte dissacrante la fa anche il piacevole tema principale ad opera di Fiorenzo Carpi, ma ciò che si ricorda maggiormente oggi è il comparto scenografico. Ad occhio discretamente povero, probabilmente realizzato in poco tempo, sfrutta in maniera decisa il Chroma key, facendo scorrere, alle spalle dei personaggi, a tratti una Mosca metropolitana sfavillante di luci, in altri veri e propri inserti tratti dai film di Dziga Vertov. DZIGA VERTOV utilizzato per una fiction italiana, penso non si debba aggiungere altro. Sfondi della stessa maniera anche negli altri luoghi di ambientazione, il sovchoz "Raggio Rosso" e la zona di Steklòvsk. Nuovamente dell'avviso che anche questa scelta renda bene lo spirito smaliziato dello scrittore, si è davanti ad un teatrino sarcastico che picchia con fare "pulcinellesco" sul deretano della burocrazia di linea kafkiana e dell'arroganza. Anche le creature frutto degli esperimenti sembrano uscite fuori da un carro allegorico che porta il farfallino di Bulgakov.
Oltre che per l'animo pungente è fedele anche per via della presenza di passi presi pari pari dal libro, narrati dalla voce extradiegetica dello stesso Gregoretti.
Catastrofico e più crudo il finale, con l'immagine di Pérsikov a monito.
Una creazione valente ancora oggi, che non sfigurerebbe come mezzo per far conoscere certa letteratura ai più giovani.
Ora ci permettiamo una digressione: se una personalità come Gregoretti, legata ad una certa ideologia ha trattato quest'opera possiamo renderci conto che a comprendere certe sfaccettature in Italia non siamo in cento (forse in 101...). Bulgakov scriveva questo romanzo nel 1925, anni difficili, in cui alla Rivoluzione russa non aveva seguito un echeggiamento in altri Paesi. La NEP, il sistema economico creato da Lenin viaggiava su un filo, presenziavano individualismi umani a carattere borghese (vedi personaggio di Preobraženskij in Cuore di cane) e di lì a poco sarebbe arrivato il fautore definitivo della controrivoluzione: Stalin. Quindi, prima di strumentalizzare a raffica è bene fare un ripasso generale, condito da sfruttamento della propria materia grigia.
L'invenzione di un uomo, secondo certi dettami, può benissimo essere messa al servizio delle masse, curata da lui stesso, senza usi sconsiderati da parte di chiunque, senza eccessi di mani inesperte ed arriviste.
Il raggio rosso scoperto da Pérsikov è degenerato per via di una mancanza di ponderazione e una sete egocentrica, tutto nel mezzo di una situazione sociale di difficile domatura. Anche per quanto riguarda la scienza, vi è un messaggio vieppiù attuale.
Nota: in questo sede abbiano letto il romanzo tramite l'ottimo volume edito anni fa da Newton, e contenente anche il succitato Cuore di cane e Diavoleide. Segnaliamo che è ancora reperibilissimo entro i soliti canali di acquisto dell'usato o del remainder.