OCCHIO: degustazione, esegesi...   ESPRESSIONI: visioni, letture, arte...

lunedì 30 gennaio 2012

lezione

Schatten - Eine nächtliche Halluzination
(Ombre ammonitrici)
1923
Germania
Regia: Arthur Robison
Scritto: Arthur Robison, Rudolf Schneider

Ma quanto può esser potente la gelosia? Lo sa bene il padrone della casa che fa da sfondo a quest'opera, che prova quel sentimento in maniera spropositata per la donna presente, probabile moglie ma mai detto chiaramente, infatti per la pellicola lui è semplicemente "uomo", mentre lei "donna", quasi a dare alla vicenda un sapore primordiale. I suoi nemici sono un aitante giovanotto e tre gentiluomini, tutti invitati per una cena nella magione. Lui è violentemente folle, ma lei prova effettivamente simpatia per le attenzioni di costoro: sogna il giovane sotto la Luna, di cui è quasi sicuramente innamorata, mentre schernisce l'avvicinarsi degli altri.
Ad una certa ora della notte arriva un intrattenitore, esperto d'ombre cinesi, che nel giallo della fotografia e nella prominenza delle sue espressioni riesce a convincere il tenutario a tenere una sua esibizione.
Ombre orientali parlano già di cosa accade in quel luogo, con delicatezza, ma tanta, tanta sincerità.
Il clou, però, avverrà dopo, quando uno specchio, metafora di ciò che si cova all'interno, svelerà definitivamente la tresca fra il ragazzotto e la bella ambita. E follia fu. L'"uomo" costringerà tutti e quattro gli impudenti a compiere un martirio di san Sebastiano verso la giovane, nonostante le rimostranze della servitù, anche quella più ambigua. Useranno delle spade, che oltre ad infilzare la tenera carne, saranno anche simbolo di taglio e distruzione delle loro attenzioni amorose. Morte a tutti i sentimenti, lei è solo sua!
Ma sarà l'effetto cinematografico della dissolvenza a mettere in gioco altre carte, l'artista intervenuto darà una una gran lezione, maneggiando a piacimento le ombre dell'animo.
Ritenuto un gioiello del cinema espressionista tedesco, a parer nostro ne presenta molti tratti ma non è riconducibile completamente alla corrente. Recitazione tirata, trucco marcato, abiti di scena che paiono estensioni delle sinapsi cerebrali, ammiccamenti d'ogni sorta, e le assolute protagoniste, le ombre, una continuazione dell'inconscio, un collegamento emotivo a cui gli attori hanno dovuto girare intorno.
Splendido il tocco visivo del maestro Fritz Arno Wagner, lo stesso di Nosferatu, eine Symphonie des Grauens e M, tanto per dire, direzione artistica e costumi di Albin Grau; tutto ammaliante.
Quasi unica sortita, l'altra è stata con il remake del bellissimo Der Student von Prag (1913 l'originale, 1935 il rifacimento), nel mondo dell'orrore di Arthur Robison.
Portato alla luce e restaurato dal Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung, dalla Cinémathèque française e dalla Cineteca Del Comune di Bologna.

venerdì 27 gennaio 2012

il sonno della dominazione

Dreamgirl
1966 (circa)
Stati Uniti d'America

Dormiveglia e sonno irti di passione estrema, sfrenato piacere parallelo al dolore, quel masochismo che par contro natura e invece diventa strumento di benessere per tanti umani.
L'uomo qui ritratto sfoga la sua pulsione e si mette a capo di una folta schiera di maschi che covano desideri di questo stampo, in parte specchio di puro libertinaggio, in altri casi derivati da misoginia e sconfitte al cospetto dell'altro sesso. Fra transizioni ad iride, il palo al centro dello schermo si fa albero della cuccagna, pronto ad ospitare anche il rovesciarsi della situazione, quando l'aguzzino dormiente inizia a desiderare la sottomissione, e via, in nuova rappresentanza di milioni di signori sparsi in tutto il globo, fino ad arrivare al massimo della libido.
Conosciuto anche come Stacey Walker, Dreamgirl è una probabile parte iniziale di una pellicola sexploitation mai completata, che diventa involontariamente metafora di desiderio inespresso. Prodotto da David F. Friedman, celebre produttore ed esponente d'exploitation, partecipe anche in alcuni titoli di Herschell Gordon Lewis, e interpretata da Stacey Walker, che in quell'anno compare anche in un altro paio di pellicole di genere.

martedì 24 gennaio 2012

il quarto d'ora

Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
(Tratto da Operette morali)
Giacomo Leopardi
Biblioteca Universale Rizzoli

Trapasso. Esso arriva in silenzio, senza clamore, come un sonno che culla gli attimi prima del suo arrivo. Niente nervi che si tranciano, né muscoli spezzati, la cosa avviene in maniera naturale, beata. Sì, beata. Linea di traguardo perché allevia tutti i dolori, languore che si può dir piacevole, nessun attimo vivissimo.
Dicono così loro, le mummie nello studio di Frederik Ruysch, dopo aver cantato alla mezzanotte, stessa cosa che hanno fatto tutti i morti del mondo. Possono essersi espresse, nel tempo di quindici minuti, perché c'era chi domandava, Ruysch, che aveva anche temuto che potessero agire da vampiri.

venerdì 20 gennaio 2012

pugno chiuso e otturatore aperto!

Человек с киноаппаратом (Chelovek s kino-apparatom)
(L'uomo con la macchina da presa)
1929

Unione Sovietica
Regia: Dziga Vertov
Scritto: Dziga Vertov


Si apre il diaframma come l'occhio umano al mattino, quando tutto ancora è calmo e il sole illumina gli ultimi scampoli di sonno. L'occhio meccanico è parte di questa realtà, anch'esso inizia ad adoperarsi per prendere parte al mondo e poi riportalo su pellicola, così com'è. La sua preparazione è come la vestizione umana, il dilatarsi della sua meccanica come una tapparella di un'abitazione. È la realtà.
In L'uomo con la macchina da presa non esistono intertitoli, né sonoro né trama, o meglio, lo scenario è lo scorrere quotidiano della vita, in questo caso nella città di Odessa, con la sua estetica spesso inesplorata, banale per i nostri animi assuefatti, ma che con un'attenzione maggiore brillerebbe sotto molti aspetti.
Qui c'è testimonianza della poesia dei mezzi di locomozione, dei macchinari in movimento, delle catene di montaggio, misti alla folla, perché anche l'azione degli esseri umani è una meccanica. Poi ci sono le carrozze, che uniscono organico e congegno, lo sport, con gli uomini e le loro "estensioni", cioè gli attrezzi come l'asta per saltare o il martello. Stessa importanza viene data ai materiali immobili, quindi alle immagini statiche, contemplando una vetrina, una cassetta postale o un'insegna che parla e non ha bisogno di ulteriore spiegazione, tutto al presunto servizio di un socialismo che poi effettivamente non era stato raggiunto.
Come mostrato tramite questa corrente, il Kinoglaz fondato da Vertov stesso, essendo la camera e la tecnica cinematografica stesse parte del sistema, non si risparmiano effetti d'avanguardia purissima, come mostrare i singoli fotogrammi in pausa, il ralenti, viceversa, le immagini accelerate, le sovrimpressioni, dove gli elementi formano un quadro di grande effetto, addirittura lo "split screen", cinquant'anni prima di essere apprezzato in un, ad esempio, De Palma.
L'operatore, che viene anche ripreso da un'altra camera perché, come detto, è anche lui un operaio a lavoro, è Mikhail Kaufman (anche direttore della fotografia insieme a Gleb Troyanski), fratello del regista, che si impegna in riprese di un dinamismo sfrenato: in bilico su un'automobile in corsa, di fianco, sotto o a bordo di un treno, in moto, fra dei tram, su alture, sbilenche; l'occhio ha fame di realtà, compresa quella più triste. A proposito: siamo nel periodo della cementificazione della teoria sovietica del montaggio, di cui Dziga è largo esponente, e la cosa è visibilissima in questa pellicola, dove la composizione mostra una dialettica del vissuto, con la gioia e la tristezza contrapposte, la vita e la morte. A testimoniare non l'importanza, ma la totale reverenza a questo mezzo, sono comprese sequenze in cui è all'opera la montatrice con pellicola e strumenti, Yelizaveta Svilova, moglie del regista, che vanno quindi a formare il quadro completo del realismo in tutte le sfaccettature, dov'è bandita la finzione e si va oltre la metacinematografia. Tempi anche del "montaggio delle attrazioni" formulato da Ėjzenštejn, quindi abbiamo delle immagini caotiche una appresso l'altra, per dare idea di caos metropolitano, che spingano lo spettatore ad emozionarsi.
Abbiamo prima accennato dell'esistenza nel filmato di visioni tristi, che possono essere, tanto per dire, gente disagiata in strada: curiosa la presenza, trattandosi di un qualcosa che suscita negativo pensiero sociale, ma legittima, essendo Vertov convinto sostenitore, nella sua ottica, dell'ideologia comunista, ha definito importante anche proporre i problemi comunque esistenti. L'artista non fu comunque esente da oscurantismi, le autorità di quello che era già allora pieno "capitalismo di stato" non ebbero sempre simpatia per il suo operato.
Nel finale la cinepresa diventa ancor di più protagonista, in una favolosa sequenza d'animazione a passo uno, una vera e proprio danza del mezzo addetto alla costruzione visiva; si può definire un sentito omaggio per essa.
E mentre lo spettatore continua a guardare la concretezza dell'oggettivo su schermo, l'otturatore si chiude sul diaframma e così anche il "Cineocchio".

lunedì 16 gennaio 2012

ombre interiori

Figures de cire
1914
Francia
Regia: Maurice Tourneur
Scritto: André de Lorde

Noia da ricchi. Due borghesissimi spacconi, Pierre e Jacques, tentano quella scommessa su cui sono state costruite tante leggende: passare la notte in un luogo pauroso, in solitaria. Son stati cimiteri, case infestate, stavolta tocca al museo delle cere del posto, con tanto di custode anfitrione di profondi abissi o lui stesso impersonificazione della morte.
Pierre inizia quindi il suo viaggio antelucano fra rappresentazioni di criminali e efferatezze d'ogni tipo, situazioni truci, drammatiche, scientifiche; visto che deve passare il tempo potrà anche riflettere su come l'uomo "gestisce" il suo prossimo.
Il signor Pierre però non ha fatti i conti con la più grande paura esistente, quella dell'impalpabile, l'ignoto che viene da dentro se stessi, fomentato dall'immaginazione. Il luogo sarà un attizzatoio, i rumori naturali e l'immobilità delle statue diverranno suoi nemici, e la sua spocchia cederà in favore della follia, con la luce che porterà l'altro scommettitore a saggiarne la profondità. Subito pronta un'altra figura da esporre!
Maurice Tourneur era il padre del più celebre Jacques, autore noto soprattutto per i suoi più volte ricordati horror, quali Il bacio della pantera, Ho camminato con uno zombi, La notte del demonio. Qui mette in scena uno scritto di André de Lorde, autore principale del teatro Grand Guignol parigino. Il risultato è proprio un qualcosa con il sapore del palcoscenico, con gli attori che arrivano effettivamente da quel mondo.
Curiosi accenni di panoramica, in un periodo in cui spadroneggiavano i piani fissi, fanno da particolare cornice tecnica.

giovedì 12 gennaio 2012

rush fosco

Arthur Crabtree e l'orrore

Il britannico nativo dello Yorkshire, Crabtree, dopo una trentennale carriera da director e cinematographer dedita soprattutto al drammatico ed alla commedia, termina il suo contributo scendendo i gradini oscuri dell'horror.
Fiend Without a Face, del 1958, è un, volontario o meno, manifesto antinucleare, con tanto di condanna alla cupidigia scientifica, quel senso di onnipotenza che scorre nelle vene di chi va oltre l'azione per il bene dell'umanità e sembra voglia percorrere carreggiate divine.
Sullo sfondo di una base militare USA con impianto nucleare stanziata in Canada avvengono delle strane dipartite. Le vittime, militari e abitanti di un villaggio limitrofo, vengono attaccate al cervello ed al midollo spinale. Varie sono le congetture di paesani, un po' rudi e diffidenti verso le radiazioni, e protagonista, il maggiore Cummings, che rivolge le sue attenzioni ad uno scienziato locale, prof. R.E. Walgate, impegnato in sperimentazioni con il potere della mente umana. Avranno ragione entrambi, perché la scienza malsana di Walgate ha creato un mostro telecinetico, invisibile, che si alimenta con l'energia nucleare. Nel vivo della pellicola i "fiends" si mostreranno, ed avranno, cosa di alto valore allegorico, l'aspetto di proprio di cervello umano, con annessi, connessi e surplus. I problemi di questa Terra sono spesso creato da noi stessi, dalla nostra materia grigia che abbatte un limite, quelle che possono essere invenzioni benefiche sfuggono di mano e si trasformano in nemici dell'uomo.
I demoni di questa pellicola sono animati in stop motion con un perizia sufficiente per il tempo, in un bianco e nero dagli sfondi fintamente canadesi, visto che realtà si gira nel cuore del Regno Unito. C'è una sequenza in un cimitero, molto bella, che rimanda in qualche modo ad una ben più nota di Il gatto a nove code argentiano. Chissà...
Degni gli interpreti, molto dolce Kim Parker, che impersona la sorella di una delle vittime, attiva solo in una decina di pellicole; un vero peccato...
Tratto da un romanzo di Amelia Reynolds Long, The Thought Monster, e sceneggiato da Herbert J. Leder, che doveva anche girarlo, ma contrattempi da espatrio non gliel'hanno permesso.
Nelle menti, è proprio il caso di dirlo, di molti anglosassoni ma ancora inedito in Italia.
Nel 1959 si passa a Horrors of the Black Museum, ed è di nuovo arrivismo personale, con uno scrittore di inchiesta che si occupa di omicidi e dell'inettitudine di chi dovrebbe prevenirli. Possessore di un museo dell'orrore personale, con tanto di cere e strumenti di tortura, non si fa problemi a nascondere la stessa cosa nella sua indole, usando un'iniezione particolare che induce il suo assistente a compiere i delitti ideali per i suoi scritti.
Qui subentra il classico inglese, il mito di Frankenstein, ma in maniera maggiore dottor Jekyll e signor Hyde, con la doppia personalità covata in ognuno di noi che viene aizzata da un mente esterna più diabolica e manipolatrice.
Graficamente siamo su un piano completamente diverso: fotografia di Desmond Dickinson, a colori, sul filone dei classici Hammer e Amicus. Londra decadente, modi raffinati, "bobbies", botteghe dallo strano commerciare (di nuovo Amicus) ed, appunto, musei lugubri.
Globalmente più kitsch dell'altro, non mancano momenti ironici e "retro tecnologia".
Al momento della sua uscita al cinema vantava un'attrattiva tecnologica nominata "Hypnovision", che però non era altro che un'introduzione in cui un tizio dava idea di ipnotizzare lo spettatore. Trovate del genere ma più interessanti, tipo quelle del genio William Castle, le descriveremo magari più in là, invece pezzo forte di questo film sono le modalità di omicidio, con gli originali oggetti usati per compierli.
Scritto da Herman Cohen e Aben Kandel, in Italia è Gli orrori del museo nero, in patria era accomunato in una triade insieme a Circus of Horrors e Peeping Tom.

domenica 8 gennaio 2012

ragni cannibali scivolano e strisciano

Spider Baby or, The Maddest Story Ever Told
1968
Stati Uniti d'America
Regia: Jack Hill
Scritto: Jack Hill

Jack Hill, internazionalmente venuto fuori alla grande grazie alle ispirazioni "tarantiniane", importante per la figura di Pam Grier con Coffy e Foxy Brown, si propose con quest'horror venato di grottesco, di non grandissima fama mondiale ma decisamente riuscito. Girato nel 1964, ma per vicissitudini pubblicato solo nel 1968.
Tre creature alla deriva, Virginia, Elizabeth e Ralph Merrye, vivono sotto l'ala di una promessa, quella richiesta dal loro padre Titus ad un tuttofare casalingo, Bruno, di pensar loro, accudirli e soprattutto non rendere pubbliche le loro caratteristiche. I quattro, o per meglio dire gli otto, visto che papà, zio Ned, zia Clara e zia Martha fanno comunque sentire la loro presenza, vivono contro le regole, isolati, si cibano in maniera "weird", vestono in maniera selvaggia, pensano spesso al lato "bad" delle questioni di vita... uccidono... Ammazzano per gioco, Virginia si sente un tutt'uno con il mondo aracnide, e quando lei è il ragno la preda deve morire, e questa è umana!
Un giorno tutto sembrerà finire, dei parenti rivendicheranno l'affidamento e arriveranno alla magione con atteggiamento docile, ma armati di presenze burocratiche, quantomai antipatiche. Si baloccherà, si mangerà carne, si ammiccherà incestuosamente, sarà imposta la visione di vita di questi Addams truci.
Chi sopravviverà avrà modo di raccontare allo spettatore la vicenda in un "outro" metacinematografico, cosa fatta anche ad inizio pellicola. Ed a proposito: i titoli iniziali sono un qualcosa di sublime, una canzonetta macabra, un'essenza "orrorifica" che presenta la pellicola in maniera buffamente nera.
Il disturbato Bruno è il grandissimo Lon Chaney figlio (che recita anche la filastrocca della sigletta succitata!), la bella Virgina è la prematuramente scomparsa Jill Banner, Elizabeth una pruriginosa Beverly Washburn e Ralph è Sid Haig, poi entrato nel cuore di tutti i fan di Rob Zombie per l'interpretazione di Captain Spaulding (no, non quello di Groucho Marx).
Fotografia in bianco e nero e in 1.66:1 di Alfred Taylor, poi autore anche delle cura grafica del cultissimo Killer Klows from Outer Space.
Exploitation, con tanto di sperimentata presentazione filo scientifica, particolare, che riesce però a rifarsi a classici stilemi, quali la casa maligna, le presenze "hitchcokiane" o per meglio dire à la Robert Bloch, ragni simbolici, gioventù terribile...
Spassoso uno dei titoli con cui è conosciuto: Attack of the Liver Eaters.
Doveva avere un seguito ed un remake, ma si è visto solo un musical nel 2004, un documentario ed omaggi, tra cui un sito ufficiale.

martedì 3 gennaio 2012

la faccia del passato

Dementia
1955
Stati Uniti d'America
Regia: Bruno VeSota
Scritto: Bruno VeSota

La follia genera mostri, questo viaggio in celluloide ben descrive una situazione tale.
Lei viveva con due creature maligne, una fedifraga, femmina, l'altra rozza e violenta, maschio. La creatura uomo uccise la creatura donna e lei, figlia e protagonista, dopo aver visto la scena, accoltellò lui, il padre. Ciò rimarrà per sempre nella sua vita, squallida, pregna d'incubi, con un letto in un infimo hotel, con una luce intermittente che entra dalla finestra e fa da spola fra passato e presente, fra personalità violenta e pacata, con vicini che le ricordano le sue storie passate. Nella metropoli in cui vive, le cui strade e strutture paiono mondi asimmetrici, con marcate luci ed ombre, come nel'amato, da chi scrive, espressionismo tedesco, esistono altri obbrobri: reietti maneschi negli angoli bui, manichini indifferenti e lerci arricchiti sempre pronti a comprare con il loro sporco denaro, affamati di carne da masticare e da violare. Uno di questi ultimi, schifoso, con il suo egocentrico lacché riuscirà a circuire la donna, e dopo preamboli borghesemente falsi si dovrà arrivare al dunque carnale. Ma lo spettro del padre è ovunque: nell'attendente presente nel lussuoso stabile dove dovranno consumare il rapporto, nell'aspetto fisico delle forze dell'ordine, che una volta l'hanno anche aiutata (una lievissima accondiscendenza alle violenze paterne?), dappertutto, ovviamente anche nel viso del facoltoso. E con un peso del genere non si può che ripetere l'azione passata. Nessuno la perdonerà, anche se vivrà un momento di salvezza "artistico" in un jazz club, la raggiungeranno, la polizia/padre, il laido riccone risorto, gli ignavi delle strade.
Incubo? Forse no.
Capolavoro di chiaroscuri, mimiche caricate, sovrimpressioni geniali, si veda la metaforica sequenza con le onde.
Lei, a parer nostro, bellissima.
Altre sequenze di rilievo sono quella al cimitero, un grandissimo espediente per il flashback, che strizza l'occhio ai classici d'orrore del periodo e ricorda non poco alcuni film di Ed Wood, il direttore della fotografia è infatti William C. Thompson, suo assiduo collaboratore, e la bellissima conclusione dal serratissimo ed allucinante montaggio.
Musiche di George Antheil adatte perché martellanti ed ossessive, quasi nessun suono, se non nel finale.
Questa versione, in cui è presente la narrazione extradiegetica di Ed McMahon ed è chiamata Daughter of Horror, dura poco meno di un'ora, ne esiste un'altra di 61 minuti senza narratore, con qualche suono di sottofondo in più.
Scrittura e regia vengono attribuiti a John Parker, che invece è solo produttore, quei ruoli spettano a Bruno VeSota, interprete anche dell'uomo ricco.