1913
Stati Uniti d'America
Regia: D.W. Griffith
Scritto: Jere F. Looney
Non allunghiamo il brodo descrivendo l'importanza per la storia del cinema del nome di David Wark Llewelyn Griffith, con le sue pietre miliari che navigano in un mare di oltre 500 opere nate poco dopo l'inizio del secolo, e fermiamoci al 1913 ed a questo The House of Darkness.
Viva competenza già mostrata dal maestro, coadiuvato alla fotografia dal fido G.W. Bitzer, interessante l'iniziale uso delle luci, una specie di transizione prolungata che abbraccia un tempo più esteso di scena, insieme ad un fine gusto artistico per la composizione dell'immagine. Tecniche che ci introducono all'ambiente di una casa di cura per disabili mentali, con i pazienti nelle loro caratterizzazioni, medici, infermieri ed addetti al lavoro. Ve n'è uno in particolare, che diventa protagonista della storia, che si denota per un comportamento violento, aggredisce un altro ricoverato, viene allontanato di forza, ma a "salvarlo" arriva... l'arte. Un'infermiera sta suonando il piano, l'uomo pare bearsi della cosa, e sorprendentemente si placa. Per poco, appena lontano dalle sette note, si ribella e fugge nuovamente.
Alternativamente alle vicende ospedaliere c'è una circostanza amorosa, un dottore prende in sposa un'infermiera, e le due storie si uniranno, infatti il dissennato finirà a casa dei coniugi in un momento in cui lei è sola, non prima di aver rubato una pistola ed aver scrutato l'ambiente, in una sequenza rilevante dal punto di vista della profondità di campo. Nella casa il climax è al massimo, la tensione ben resa, giusti i tempi, c'è un filo di morbosità inusuale per i tempi, tutto racchiuso in un quadro fisso.
Ma sarà ancora una volta una melodia a salvare la situazione, la donna si troverà involontariamente a contatto con il pianoforte di casa e lui si calmerà fino alla spontanea consegna a chi di dovere. Talmente forte sarà il valore di quest'opera dell'ingegno, che si proverà una terapia con la musica, la quale curerà definitivamente il ricoverato.
Ode alla libertà di assaporare opere d'arte, al bando bigottismi, oscurantismi e conformismi che vogliono imporre una vita mediocre a chi non la tollera.
Ogni volta mi sorprendi con le tue riscoperte; adesso addirittura ne esci con una delle regie meno conosciute della filmografia di Griffith.
RispondiEliminaNon c'e che dire, m'inchino davanti al maestro.
@Nick: c'è tanta passione per l'"alternativa", con tutte le sue sfaccettature.
RispondiEliminaUn grossissimo grazie a te per il sincero interesse!
Premetto che amo particolarmente il cinema degli anni Dieci.
RispondiEliminaGriffith non è mai stato il mio preferito: riconosco che ha inventato gran parte del linguaggio filmico, ma Intolerance e Birth of a nation per me sono state pillole amare da mandare giù - sarà che sono la prima cosa che ti impongono di vedere appena entri all'università.
Però, con questa recensione mi hai incuriosito e mi hai fatto venire voglia di riavvicinarmi a Griffith (ed è un'impresa ardua, questa, quindi...complimenti!)
Sì anche io, parlando della pillola amara da mandare giù, mi riferivo alla lunghezza dei film che a tratti procedono in modo sin troppo lento - non mi riferivo ai temi. Però bisogna riconoscere a Griffith l'invenzione dei piani e anche la struttura a episodi dei film. Insomma, lui è uno dei primi che fa cinema-cinema. Rimane il fatto che mi hai incuriosito non poco con questa tua recensione!
RispondiElimina@Veronica: questo fortunatamente è breve, sul quarto d'ora. Se lo vedrai, sarei curioso del tuo giudizio!
RispondiEliminaMerry Christmas and best wishes for 2012!
RispondiEliminaEmma