OCCHIO: degustazione, esegesi...   ESPRESSIONI: visioni, letture, arte...

venerdì 30 dicembre 2011

bizzarre alterazioni

La folie du Docteur Tube
(La follia del dottor Tube)
1915
Francia 
Regia: Abel Gance
Scritto: Abel Gance

Abel Gance, ricordato per la sua propensione all'innovazione tecnica, non si smentì neanche con questa commedia d'avanguardia con punte slapstick.
Acerbo "mad scientist" cinematografico, il dottor Tube arriva a inventare una polvere che stravolge la visione della persone con cui viene a contatto: il mondo appare distorto, le proporzioni di qualsiasi cosa, anche il corpo della vittima dell'esperimento, violentate, si può dire che sia uno stupefacente dagli effetti visivi estremi. Le donne saranno quelle più sofferenti, perché vedranno i loro beneamati tratti fisici scomposti. 
Puro sperimentalismo che crea nello spettatore voluto straniamento, l'invenzione dello scienziato è funzionale anche alle platee, la percezione di chi guarda è talmente alterata da non permette, a tratti, neanche di capire lo svolgersi degli eventi. L'ambiente diventa fantasioso come in un incubo in cui gli arti si allungano e gli oggetti diventano infiniti, tutto creato grazie all'uso di speciali lenti distorcenti, tipo specchi dei luna park. 
La cosa è però reversibile, tornerà tutto alla normalità e si banchetterà, tranne il professore, che continuerà la strada della follia inventiva.
Fotografia di Léonce-Henri Burel, il dottor Tube è interpretato da un divertente Albert Dieudonné.

lunedì 26 dicembre 2011

segreti

The Unknown
(Lo sconosciuto)
1927
Stati Uniti d'America
Regia: Tod Browning
Scritto: Mary Roberts Rinehart, Tod Browning, Waldemar Young, Joseph Farnham

Un Browning in gran spolvero, che, ispirato dalla novella K di Mary Roberts Rinehart, ambienta una vicenda in quell'ambiente circense che in passato lo affascinò a tal punto da scappare di casa per seguirlo. Parliamo del seminale autore del Dracula con Bela Lugosi, di La bambola del diavolo, I vampiri di Praga, del film semi disperso ed ormai mito Il fantasma del castello, conosciuto maggiormente con l'originale London After Midnight, e del simile a ciò che stiamo trattando e di certo sua opera più famosa, Freaks.
Alonzo (Lon Chaney Sr.) è un artista senza braccia e dal passato torbido, che nel tendone dei divertimenti lancia coltelli e spara con sole gambe e piedi. È innamorato della bella Nanon Zanzi (Joan Crawford), sua partner nei numeri e figlia di Antonio (Nick De Ruiz), il proprietario del circo. A bramare la stessa donna c'è anche Malabar (Norman Kerry), il classico uomo forzuto dell'iconografia.
In questi lidi riteniamo le presenze in scena importanti tanto quando un dettaglio scenografico o, tanto per dire, un tipo di obiettivo, ma in questo caso Chaney, noto interprete di classici quali Il gobbo di Notre Dame (1923) e Il fantasma dell'opera (1925), è un gradino sopra alla filosofia, un'eccezione. Il personaggio è uno dei più allucinanti visti nella settima arte della prima metà del secolo: pregno di un sentimento talmente forte da diventare nero, un'amore che assume tratti diabolici. Stregati dai movimenti facciali di Alonzo, il nostro respiro segue le sue espressioni, che sanno essere terribili, come rassicuranti; un viso che è un leva di comando nella macchina/telespettatore. Come muove noi, così accade al suo assistente, il piccolo Cojo (John George), anche lui discretamente fosco.
Nanon, l'affascinante gitana, ha anche lei di che lamentarsi, affetta da un forte turbamento, ha paura di farsi toccare dalle mani maschili, complice la brutalità con cui è stata trattata in passato. Quanto significato c'è dietro questa scelta, con questa ragazza senza fiducia verso il cosiddetto sesso forte, spesso troppo materiale nel modo di approcciarsi, con le mani che sono soltanto una delle componenti solide con cui si affaccenda. Mani, quindi carnalità che diventa fine a se stessa, senza l'apporto di cuore e cervello. Nonostante Malabar pare permeato da sentimenti sinceri (dice di averla nel cuore e nell'anima!) lei ha ne ha paura, e Alonzo ne godrà e fomenterà la cosa, bramando il momento giusto per farla sua, all'insaputa del forzuto che invece lo crede distaccato e dalla sua parte, infatti non si fermerà neanche quando ci sarà da proteggerlo.
Ma il lanciatore di coltelli nasconde un segreto, la sua maschera non è metaforicamente esterna, ma interna, una realtà taciuta come tanti aspetti del suo spirito, che dovrà "limare" per avere il suo amore. Qui entrerà in gioco un medico dagli echi à la Frankenstein, ma l'epilogo prenderà una piega imprevista, con la donna che modificherà il suo animo, purtroppo per il protagonista.
Il finale vale tutto il film, il ritorno dell'"armless" in campo lungo e il successivo contrapporsi delle sue emozioni sul suo vulcanico viso. Il resto della storia è uno splendido montaggio narrativo, mancante però della parte iniziale, mai ritrovata, con filtri ad enfatizzare alcuni momenti o a sfocare i primi piani, anche negli attori uomini, cosa più rara. Morboso e carico d'eros in diversi momenti.
Una completa cineteca del brivido non può fare a meno di questo titolo.

giovedì 22 dicembre 2011

terapia sinfonica

The House of Darkness
1913
Stati Uniti d'America
Regia: D.W. Griffith
Scritto: Jere F. Looney

Non allunghiamo il brodo descrivendo l'importanza per la storia del cinema del nome di David Wark Llewelyn Griffith, con le sue pietre miliari che navigano in un mare di oltre 500 opere nate poco dopo l'inizio del secolo, e fermiamoci al 1913 ed a questo The House of Darkness.
Viva competenza già mostrata dal maestro, coadiuvato alla fotografia dal fido G.W. Bitzer, interessante l'iniziale uso delle luci, una specie di transizione prolungata che abbraccia un tempo più esteso di scena, insieme ad un fine gusto artistico per la composizione dell'immagine. Tecniche che ci introducono all'ambiente di una casa di cura per disabili mentali, con i pazienti nelle loro caratterizzazioni, medici, infermieri ed addetti al lavoro. Ve n'è uno in particolare, che diventa protagonista della storia, che si denota per un comportamento violento, aggredisce un altro ricoverato, viene allontanato di forza, ma a "salvarlo" arriva... l'arte. Un'infermiera sta suonando il piano, l'uomo pare bearsi della cosa, e sorprendentemente si placa. Per poco, appena lontano dalle sette note, si ribella e fugge nuovamente.
Alternativamente alle vicende ospedaliere c'è una circostanza amorosa, un dottore prende in sposa un'infermiera, e le due storie si uniranno, infatti il dissennato finirà a casa dei coniugi in un momento in cui lei è sola, non prima di aver rubato una pistola ed aver scrutato l'ambiente, in una sequenza rilevante dal punto di vista della profondità di campo. Nella casa il climax è al massimo, la tensione ben resa, giusti i tempi, c'è un filo di morbosità inusuale per i tempi, tutto racchiuso in un quadro fisso.
Ma sarà ancora una volta una melodia a salvare la situazione, la donna si troverà involontariamente a contatto con il pianoforte di casa e lui si calmerà fino alla spontanea consegna a chi di dovere. Talmente forte sarà il valore di quest'opera dell'ingegno, che si proverà una terapia con la musica, la quale curerà definitivamente il ricoverato.
Ode alla libertà di assaporare opere d'arte, al bando bigottismi, oscurantismi e conformismi che vogliono imporre una vita mediocre a chi non la tollera.

lunedì 19 dicembre 2011

vendetta fra due continenti

İntikam Kadını
1979
Turchia
Regia: Naki Yurter


Il "rape and revenge" non è certo un genere che ha l'originalità dalla sua, l'evolversi delle vicende è sempre quello di violenza e conti da far pagare, una situazione che all'exploitation ha fatto sempre comodo.
Il lavoro ora trattato è un corrispondente turco del più celebre I Spit on Your Grave (Non violentate Jennifer, 1978), con la bella donna stuprata che si vendicherà amaramente; niente spoiler da inserire, è la trama strandard.
Davvero povero sotto vari fronti, sono più d'una le situazioni inverosimili e troppo sbrigative. La protagonista subisce la brutalità troppo remissivamente, in più deve incassare un lutto che viene liquidato con troppa fretta, oltretutto il senso dello stesso è abbastanza strano. I fautori del crimine sono abbastanza laidi, già il primo incontro la vittima li aveva bene stimolati, ma poi il tutto avviene in un momento di apparente tranquillità.
Gli omicidi vendicativi sono visivamente da due soldi, solo uno è salvabile per freddezza, ma compiuto con un coltello sporco di sangue prima del tempo, altri sono caratterizzati da eccesso di staticità delle vittime, ed un caso in particolare viene solo suggerito, neanche con tanta meticolosità, a dire il vero. Fra riprese "nervose" e zoom artistici e non a iosa, interpretazioni mono espressive e musiche utilizzate presumibilmente senza averne il permesso, si va avanti.
Cosa di non secondo piano è la presenza di qualche inserto erotico soft, anche abbastanza prolungato, un paio di volte grottescamente musicato da Pulsar di Vangelis. Si può dire che, alla fine, l'essenza del film è solo la messa in mostra di atti carnali e grazie della protagonista, Zerrin Doğan, non alla sua unica esperienza del settore, che sotto forma di vendicatrice assurge un ruolo da fatale aggressiva, che non si fa problemi neanche a giacere nuovamente, ma di sua spontanea volontà, con uno dei carnefici.
Più sexploitation che altro, interessante per dare un'occhiata al panorama cinematografico e sociale turco del periodo, che faceva versioni nazionali di film ben più blasonati, un antesignano dell'Asylum.
Su qualche fonte confuso con Öyle bir kadin ki, per via dello stesso regista e della stessa protagonista.

venerdì 16 dicembre 2011

diversa strada

These Girls Are Fools
1956
Stati Uniti d'America
Regia: Jas. F. Smith

Sfavillanti son le luci di Hollywood, che attirano come la trappola di una formicaleone; tanti treni, tanti mezzi arrivano lì carichi di speranza. Sheila Anderson ha visto un sentiero davanti a sé, percorrerlo significava calpestare terriccio, e in lei c'era il desiderio che si trasformasse in scorrevole asfalto. Quel terriccio... affascinante, verace, sanguigno, ma non era quello a cui puntava, così come tante come lei...

giovedì 15 dicembre 2011

bianchezza notturna



Nightmare at Elm Manor
1961
Regno Unito
Regia: George Harrison Marks

Un corpo bellissimo che di notte diventa un'estensione carnale dell'Elm Manor Hotel, con la nostra pulsione, forse maligna, alla sua ricerca. In altri momenti essa è sopita, contenuta in una quotidianità di rilassatezza e sorrisi.
Scorrono veloci le immagini, come lo sono i pensieri che affluiscono nella nostra mente, niente parole, solo un suono soave come il piacere arrecato.
Expolitation horror/sex molto audace per i tempi, non c'è anno, epoca che tenga, per espletare voluttà!

lunedì 12 dicembre 2011

venature selvagge

Wolf Blood
1925
Stati Uniti d'America
Regia: George Chesebro, Bruce M. Mitchell
Soggetto: Cliff Hill
Sceneggiatura: Bennett Cohen

Due ditte per la raccolta di legname, la Ford Logging Company e la Consolidated Lumber Company, si contendono la leadership del mercato, arrivando anche a danneggiarsi l'un l'altra con veri e propri e attentati. A farne grosse spese è il gestore della prima, Dick Bannister, proprio nei giorni in cui è in visita la proprietaria, Miss Edith Ford, accompagnata da suo promesso sposo, Dr. Eugene Horton. Perché aggredito violentemente, Bannister ha bisogno di sangue, ed il medico, constatato che nessuno si è offerto volontario per donargliene, sperimenterà in lui una trasfusione con sangue di lupo.
Un film  in cui il rapporto uomo/animale è trattato senza exploit materiale, niente lupi mannari mutaforma, solo una persona con l'animo di bestia, che sogna branchi in corsa, eterei anch'essi. È un lato acquisito o solo esternato di un uomo corretto, dedito al lavoro, sempre pronto a risolvere i problemi fra i suoi colleghi, gente che per combattere le fatiche del lavoro cade nel vizio. Un individuo desiderabile, tanto da suscitare le attenzioni di Edith, che finirà per innamorarsi di lui, nonostante la riluttanza causata dalla paura. Mezzosangue, "diverso" (ma con una certa carica erotica, aggiungiamo noi), non conta, lei ormai è distanziata dal promesso marito per il sentimento che prova verso questa "creatura".
Viene ucciso il boss rivale, sembrerebbe da un lupo, non è chiaro se l'artefice è l'ormai ossessionato Dick, ma sta di fatto che la gente, merito anche delle leggende a tema, ha paura.
Lui vorrà porre fine alla sua agonia, ma verrà fermato da ciò che ha spesso risolto diversi problemi...
Inusuale opera su un argomento del folclore utilizzato da varie forme d'arte, dal cinema alla letteratura; nata prima di punti fermi quali L'uomo lupo (1941), L'implacabile condanna (1961), Un lupo mannaro americano a Londra (1981), fa dei lunghi campi di ambientazione boschiva canadese e del suo sottotesto sociale e psicologico il suo forte. Fascino anni Venti, trucco marcato, uso dei mascherini ad evidenziare dettagli ed ottima l'interpretazione retta prima ed alienata poi del protagonista George Chesebro, anche regista.
È una pellicola di pubblico dominio, reperibile qui, in un canale, fornitissimo anche di altro materiale, che consigliamo vivamente.

venerdì 9 dicembre 2011

la finestra sul furore

The Tell-Tale Heart
1953
Stati Uniti d'America
Regia: Ted Parmelee
Soggetto: Edgar Allan Poe
Sceneggiatura: Bill Scott, Fred Grable

Lui si confida, ammette la sua colpa, però si dice sano di mente.
Prima:
lui era in ombra, tutto era minimale, movimenti cadenzati e tranquilli. Mite anche la figura del vecchio, con la sua lenta andatura, con i gesti appena accennati. Ma non quando appariva il suo occhio, vitreo e scrutatore, alla visione d'esso l'uomo in ombra sprofondava in un abisso di follia, la realtà si faceva contorta e pulsante d'angoscia. Questo doveva finire, quel vecchio, quell'occhio doveva morire. Per sette notti le palpebre non si alzarono, tutto tacque, la solita quiete. L'ottava notte il sipario si aprì e mostrò quel bianco orrore, l'ambiente si rifece allucinante, paranoia, ossessione, il battito del cuore della vittima impazzava, gridò! Omicidio. Continuò a riposare, ma sotto le assi del pavimento. Tornando alla realtà, la polizia era sul posto perché fu udito l'urlo, però non si accorse di nulla; prima che la mente dell'uomo in ombra cedette sotto i colpi di un pulsare continuo, simili a quelli emessi da un cuore umano, a suo dire proveniente da sotto il pavimento.
Pazzia o grande sensibilità?
Immaginazione o scienza?

martedì 6 dicembre 2011

you'll scream your head off!

Blood Sucking Freaks
(Bloodsucking Freaks)
1976
Stati Uniti d'America
Regia: Joel M. Reed
Scritto: Joel M. Reed

La Troma e le sue attività produttrici e distributrici sono decisamente famose, alcuni titoli sono punti fermi fra gli appassionati, ma nel suo carnet ve ne sono centinaia. Uno dei più menzionati è questo Blood Sucking Freaks, che ha preso posto anche da noi per via della disponibilità anche in VHS con sottotitoli.
Non girato direttamente dalla casa, ma acquistato e distribuito, precedentemente nato come The Incredible Torture Show, poi rinominato.
Il culto per la tortura, che nei secoli a ritroso è stata praticata a vari scopi, è ben insediato nella mente del "maestro" Sardu e del suo assistente Ralphus, che hanno imbastito uno spettacolo a tema, con tanto di nudità, in uno squallido teatro newyorchese. Ufficialmente è una finzione di scena, nessuno può immaginare che i due gestiscono un giro di rapimenti, con ragazze che vengono sacrificate davvero per lo show, anche se il sadico Sardu mette volontariamente la pulce nell'orecchio degli spettatori.
Organizzati capillarmente riescono anche a rivendere le poverette, che quindi non assumono solo il ruolo di attrici, anzi, sono anche merce di scambio, nonché orpelli al loro servizio: tavoli, candelabri, bersagli anali per freccette ed orinatoi umani, ed anche messe a guardia di beni, sfruttando l'isteria animalesca provocata dalla situazione generale e l'affamamento, tenendole in gabbia come se fossero in uno zoo. Altre sono utilizzate per soddisfare i bisogni sadomasochistici, perversi e crudeli dei loro aguzzini ed anche se alcune sono adibite al ruolo di supporto, è chiaro che la donna in questa pellicola è solo un mezzo da sfruttare, un'entità inferiore, succube, schiavizzata e spesso alla stregua di un semplice pezzo di carne.
Un giorno il malefico duo vorrà consacrarsi nel mondo dell'arte, rapendo una famosa ballerina ed uno spocchioso critico teatrale (frecciata verso certi personaggi?) che avevano assistito precedentemente ad un loro show, per poi sfruttarli in scena con uno spettacolo di maggior prestigio. Il secondo si opporrà con tutte le energie, ma finirà, stremato, per collaborare di forza, mentre la seconda verrà assoggettata ed ipnotizzata, calcando il palco in maniera perfetta. Ma il ragazzo di lei, insospettito dallo strano comportamento, indagherà con l'aiuto di un poliziotto corrotto (e italiano) e...
Lavoro d'exploitation, basato essenzialmente su nudità, gore, e sadismo, creato con due soldi, basta vedere gli effetti davvero poveri, ma di successo dopo il rilancio.
Campo quasi perennemente buio, allegoria del mondo del teatro, un'aria da baraccone circense amplificata anche da musichette e momenti strampalati.
Qualche scena da ricordare, vedi finale e la "parcella" per il dottore, personaggio ancor più folle che interviene verso metà film.
Politicamente scorretto, subì anche proteste da parte di movimenti femministi. Perfetto per le visioni da grindhouse d'un tempo.

sabato 3 dicembre 2011

bolle fatate

Les bulles de savon animées
1906
Francia
Regia: Georges Méliès

Ed eccoci nuovamente sul troppo dimenticato Méliès, con la sua passione illusionista unita alla settima arte, comunione che ha permesso l'apprezzamento da parte del pubblico di entrambe.
In quest'opera, nata a metà della sua carriera cinematografica, comprovava di aver acquisito parecchia dimestichezza, dimostrava padronanza nell'uso delle note dissolvenze, delle esposizioni multiple, dell'avvicinamento ed allontanamento delle cinepresa, gran abilità con la ripresa interrotta, antesignana del montaggio come lo conosciamo ora e con l'interezza del suo fantastico bagaglio.
Tutto in un soggetto vivace, abbellito da scenografie teatrali, riferimenti alle tre Grazie e la sua presenza come magica guida.

venerdì 2 dicembre 2011

tentativo

Picknick
1977
Paesi Bassi
Regia: Dick Maas
Scritto: Dick Maas, Lietje Boissevain

Il nederlandese Maas è noto da noi per l'ottimo L'ascensore (1983), rimasto nella mente di molti anche per via dell'ampia circolazione del trailer in TV. Discreta fortuna ha avuto anche Amsterdamned (1988), che si avvicina all'altro per originalità del soggetto.
Questo Picknick appartiene al decennio precedente, ma già faceva notare le potenzialità dell'artista.
È un breve cortometraggio di circa 5 minuti, thriller con venature di commedia, ben fotografato e con una soddisfacente attenzione ai dettagli.
Abbastanza prevedibile, per la gioia dallo spettatore preda dalla sindrome dell'"ho capito", ma non per questo noioso da seguire, anzi, l'evolversi è grottescamente simpatico.

mercoledì 30 novembre 2011

due gioielli nel bianco

Les yeux sans visage
(Occhi senza volto)
1960
Francia, Italia
Regia: Georges Franju
Soggetto: Jean Redon
Sceneggiatura: Pierre Boileau, Thomas Narcejac, Jean Redon, Claude Sautet, Pierre Gascar


La rinomata importanza di un pezzo di carne, una cartilagine, un frammento di epidermide. Non alludiamo a funzioni atte al funzionamento del corpo, ma alla considerazione che ha la società della "scatola". In tal senso, il tempo ha imparato ad accettare anche optional non naturali, l'importante è la funzionalità sull'occhio altrui.
Il dottor Génessier è un bravo medico, peccato che pecchi di... onnipotenza. Per la scienza è disposto anche a decidere chi debba vivere e chi no, su quali esseri viventi fare pratica, chi debba beneficiare dei suoi successi e chi ne debba fare le spese. Addirittura può permettersi di fare il comodo proprio nei cimiteri, anche mentre in cielo passa un aereo, simbolo di progresso tecnologico, a terra avvengono le sue sperimentazioni semi divine, in stile costole estratte per altre creazioni. A farlo rimanere umano c'è però la paura del fallimento, sempre vigile, anche dentro chi gli sta intorno. Una presenza è Louise, una sua "creatura", visto che ha beneficiato di un intervento ricostruttivo che le ha dato nuova linfa vitale, e non ultima, ma protagonista, sua figlia Christiane, "occhi senza volto", perché il suo viso si è disfatto in un incidente stradale, tra l'altro, a detta di lei, provocato dalla superbia del padre presente anche in strada. Con un freddo stratagemma la si fa passare per morta, di modo che lo "strumento" sia disponibile in maniera indisturbata, si deve infatti tentare la ricostruzione del viso, non si sa quanto per amore o quanto per mania di potere. Ma se per sperimentare tecniche bastano dei poveri cani raccolti in strada, per il fulcro dell'operazione serve pelle fresca, connotata similmente a quella di Christiane, e Parigi ne è piena, orsù! A reperire ci penserà Louise, ci si fida di più di una donna dai modi gentili. Le mosse di lei sono rese caricaturali dalla presenza di una buffa Citroën 2CV e dalla farsesca musichetta di Maurice Jarre; contrappunto che davvero sa creare un'ottima via di linguaggio.
Ad un certo punto pare che l'operazione sia andata a buon fine, la ragazza può togliere la maschera che copriva le sue piaghe e mostrare un viso talmente angelico da sembrare di carta velina, che il padre continua a gestire permettendosi di dire anche quando un sorriso si è spinto troppo in là. Christiane aveva un ragazzo, e forse, anche sotto mentite spoglie (lei era ufficialmente morta), potrebbe rivederlo... Lui, fra le altre cose, ha un ruolo di rilievo, insieme alla polizia locale. Purtroppo le speranze decadono dopo poco, il tessuto è rigettato, iniziano a presentarsi ematomi e necrosi, tutto torna come prima. Ma questa è la goccia: occhi senza volto ormai è allo stremo psicofisico, non rimane che punire i colpevoli e ricongiungersi, insieme alle altre cavie, con la natura non modificata dalle mani umane.
Classico senza tempo, tenendo fede al fatto che è una produzione franco-italiana, pesca un po' dal gotico e meno gotico nostrano di allora, tipo quello marchiato Freda e Bava, vedi I vampiri, e un po' dal giallo o thriller metropolitano, anche francese, vedi il bellissimo I diabolici di Clouzot.
Prove attoriali di prim'ordine, con un'eterea Edith Scob nella parte di Christiane, espressiva con la maschera tanto quanto senza, e Alida Valli nei panni di Louise. Pierre Brasseur è il gelido dottor Génessier, una maschera di ghiaccio.
Regia e fotografia magistrali, si percepisce il passato dedito al documentario di Franju, è stato molto abile nel descrivere la freddezza degli eventi, così com'è funzionale la trama, ispirata ad una novella di Jean Redon, durante gli omicidi, asettici come una sala operatoria. A proposito: la sequenza dell'intervento su di una vittima ha perso un po' di effetto oggi, ma allora era fortemente scioccante.
Fotografia realisticamente ben illuminata, carrellate cadenzate, movenze delicate. Ma anche puntate ironiche a smorzare il ritmo teso.
Probabilmente uno dei migliori cento film horror della storia.

lunedì 28 novembre 2011

il candore delle spose

Living Dolls
1980
Stati Uniti d'America
Regia: Todd Coleman
Scritto: Todd Coleman

Voci, richieste, richiami, sottofondi, sono come un martello pneumatico nel cervello; oppressione, quotidianità che racchiude flashback come una scatola cinese, tutto diventa un agglomerato di cacofonia ossessiva.
Ma il buon Melvin, che lavora in un "infernale" negozio di articoli da sposa teatro di tali manifestazioni, ha il suo rifugio: la stanza ai piani superiori dove sono depositati i manichini, anzi le "manichine", sono di forma muliebre, quindi ci licenziamo con il femminile. Queste, che abbiano assorbito le umane caratteristiche o che prendano quella forma negli infiniti mondi dentro il suo cranio, gli comunicano alla solita maniera: con assillo. La funzione di rifugio entra però in gioco quando egli può azzittirle, anche in maniera sfogante. Il problema si fa più vivo quando diverranno meno controllabili e motteggiatrici, e ancor di più quando saranno un tutt'uno con i loro omologhi in carne ed ossa, ovviamente in abito bianco. Purtroppo per Melvin, il suo destino sarà essere depredato del suo essere, acquisito dal quel mondo cannibale.
Todd Coleman produce, scrive e dirige questo cortometraggio nato come progetto studentesco, vincitore di diversi premi e trasmesso da TV via cavo statunitensi, in contenitori quali USA's Night Flight e Saturday Nightmares. Compatibilmente con altre attività, Coleman tornerà ufficialmente nel cinema nuovamente con un corto, Thanksgiving, dramma familiare del 2005. 

venerdì 25 novembre 2011

passaggio d'amore

Matka Joanna od aniolów
(Madre Giovanna degli angeli)
1961
Polonia
Regia: Jerzy Kawalerowicz
Soggetto: Jaroslaw Iwaszkiewicz
Sceneggiatura: Jerzy Kawalerowicz, Tadeusz Konwicki

Facciamo un salto dal capitolo 6 di Häxan alla Polonia del XVII secolo.
In un convento di monache v'è l'amore, perché esso è il naturale fondamento di tutte le cose di questo mondo. Quando prende una direzione, qualsiasi essa sia, può soverchiare di tutto, anche un ordine religioso, come quello qui rappresentato. Le anime si innamorano di una angelo, Satana, e amano, amano, anche il curato Grandier veniva amato, poi condannato al rogo perché parte di quella passione. Persino durante la condanna si continuava, perché, mentre le fiamme bruciavano dall'esterno, dall'interno divampata il sentimento, i vestivi bruciavano o venivano strappati, ultimo atto terreno per il religioso.
Poi arriva un gruppo di quattro frati esorcisti, impegnati a liberare le monache nei modi più conosciuti, con la fede e con i riti, anche davanti alla gente, perché solo vedendo il Diavolo all'opera si può conoscere la vera fede, a detta loro.
Arriva anche padre Jozef Suryn, dopo un'intera stagione di penitenza, ma nonostante ciò è timoroso, si rende conto della grandezza del compito; il suo è più centrato, dovrà assistere personalmente la madre superiora Giovanna degli Angeli. Il nome è adatto, perché anche lei è innamorata di un angelo, come dice il rabbino con cui Suryn si consulterà, che non è nient'altro che lo sdoppiamento del suo io, vivo quando i dubbi che la sua strada cristiana non sia quella giusta sopravvengono. Per la sua metà, Suryn ha reverenza e critica, fiducia e odio per quello che gli dice, perché gli mette davanti pericolose realtà.
Jozef, appena arrivato, era stato ben inquadrato dall'abitante del posto più schietto, Wincenty Wolodkowicz, che rideva della sua umiltà, chiedeva alla locandiera Antosia di predire al padre il futuro, ma che egli stesso aveva già intuito, tutti hanno un destino e quello del padre era forse scritto. Wolodkowicz è un libertino, con un'autonomia da vincoli che lo farà rimanere rozzo, ma non trasportabile dagli eventi, al contrario degli altri villici, pur sempre timorosi (ma anche attratti) delle spire del Demonio, specialmente il giovane Juraj, vittima predestinata di alcuni mali.
Chiave di volta può essere sorella Malgorzata, unica non indemoniata. Lei non si fa scrupoli a farsi tentare (ed a tentare, oh, se lo fa!) al di fuori del convento, specialmente da un incognito viandante che appare ad un certo punto. Quindi, unica a non essere oppressa dall'occlusione monastica... Ma quanto è giusto spingersi oltre, qual è il confine fra bene e male, come bisogna vivere la vocazione? Forse lei è, in seguito, andata troppo in là? Oppure la realtà è quella nominata dai locali, cioè che anche lei è stata presa nelle grinfie dei demoni? Si redimerà, si pentirà del suo passo avventato e tornerà a vestire il bianco dell'abito religioso. A proposito di questo: da candido e casto sa diventare anche un forte ed ipnotizzante strumento visivo, basta guardare la sequenza dell'esorcismo in chiesa da parte dei quattro frati, le scene di isteria, oppure il primo incontro fra madre Giovanna e padre Suryn; il bianco pare vivere di vita propria, è un serpente strisciante. Ma non per questo, in altri momenti, viene meno alla sua funzione "castrante": dà luminescenza alla posizione della croce assunta dalle monache, sempre nella sequenza dell'esorcismo, ed è ultimo baluardo fra i due protagonisti nella terrazza del convento, in più viene messo da parte quando sorella Malgorzata vive la sua storia.
Ma torniamo al plot. Padre Suryn, ormai leso nel fisico e nello spirito, avrà finalmente modo di aiutare Madre Giovanna (in un modo simile a L'esorcista, anche nell'evolversi di una scena) e saprà anche evitare che il Male ritorni in lei...
C'è un'immensa arte visiva, vicina a Carl Theodor Dreyer per molti punti di vista, ad esempio l'uso ultra espressivo del primo piano, ma anche primissimo e mezzo busto. Emotività fortissima anche nei momenti di presunto immobilismo, si parla d'anime e noi arriviamo a vederle attraverso gli occhi degli interpreti.
Se il sunnominato L'esorcista, riprendendo dei temi qualche tempo dopo, farà un uso sconvolgente del make up, qui non ve n'era bisogno. Però fra i due film c'è in comune anche la "spider walk", ripresentata in film e romanzo di William Peter Blatty (ed altrove anche anni prima)...
Ma il clou tecnico arriva dal magistrale uso della soggettiva, un vero nervo ottico per noi, naturalissima e ben alternata con gli altri piani, spcialmente ravvicinati.
Ottimo il rapporto fra il direttore della fotografia Jerzy Wójcik, premiato in vari concorsi, e Kawalerowicz, che è stato fondatore della Stowarzyszenie Filmowców Polskich.
Omaggiato con il Premio Speciale della Giuria a Cannes, si dice sia ispirato al romanzo, influenzato da un fatto reale, I diavoli di Loudun, di Aldous Huxley.

Dedykuję ten film przeglądu dla moich czytelników, Judka.

martedì 22 novembre 2011

...spero che mi ami tanto quanto io amo te, chiamami crudele ed egoista, ma l'amore è sempre egoista

Alucarda, la hija de las tinieblas
1978
Messico
Regia: Juan López Moctezuma
Soggetto: Sheridan Le Fanu, Alexis Arroyo, Tita Arroyo, Juan López Moctezuma, Yolanda López Moctezuma
Sceneggiatura: Alexis Arroyo, López Moctezuma

Juan López Moctezuma è il papà di una manciata di film devoti al genere horror e dintorni d'esso.
Districandosi fra regia, soggetto, sceneggiatura e produzione cura The Mansion of Madness (1973), Mary, Mary, Bloody Mary (1975), To Kill a Stranger (1987), El alimento del miedo (1994) e questo Alucarda, facendosi aiutare da altri, nonché ispirandosi anche alla letteratura, fra cui quella di Edgar Allan Poe per The Mansion... e quella dell'apprezzatissimo da noi Sheridan Le Fanu per l'opera analizzata in questo post, con un velato riferimento a Carmilla. Cosa di non poco conto, è anche produttore di due opere del sommo Alejandro Jodorowsky: Il paese incantato e El topo.
Il più conosciuto di tutti è di certo questo Alucarda, sulla scia cronologica de L'esorcista e filone, ma essenzialmente diverso come impostazione.
Esempio di come un esorcistico può essere anche una storia d'amore... fra Justine, dopo la morte dei genitori arrivata in un convento di suore, e la protagonista, unite da Eros e Thanatos, l'uno collegato indissolubilmente all'altro, l'uno che innesca l'altro. Amore che è l'elemento cardine della possessione delle due ragazze, con Alucarda già da tempo nelle spire del Maligno, Justine introdotta dopo, grazie alla guida della sua speculare anima gemella, in un rito di sangue e carne; entrambe poi assistite da un gruppo di gitani satanisti, praticanti di riti orgiastici. A contrasto ci sarà altro forte sentimento, quello di sorella Angélica verso Justine, forse rappresentazione dell'amore divino calato in mortale o magari potere di una terza via non religiosa né scientifica. Sì, perché c'è anche la strada materialista, percorsa dal dottore del paese, che però finirà per ricredersi. Il medico ha una la figlia, che sarà, nel seguito della vicenda, un possibile nuovo elemento speculare di Alucarda.
La conclusione riprende le domande espresse poc'anzi...
Fotografia, del professionista Xavier Cruz, virata su un infernale rosso, colori molto accesi, secondo il tema esposto nella scena, potenti scenografie, non immensità da kolossal, siamo nel low budget ed è evidente anche dall'interpretazione multipla di alcuni attori, ma efficienza d'atmosfera. Merito per costumi e trucco, a tratti volutamente sopra le righe; surreali i "gypsy", sembrano delle entità dei boschi, quello più in evidenza pare un Fauno, creatura pagana ma maligna secondo un'accezione cristiana, quindi ben in tema.
Più d'una sequenza da ricordare: il rito di coppia fra le due ragazze, il montaggio alternato fra quello orgiastico e quello contrapposto, con tanto di transizione a flash nel momento in cui è stato montato quello maligno, allo scopo di enfatizzare la natura dello stesso, ed il finale, che strizza l'occhio al Carrie di De Palma.
Tina Romero, che interpreta Alucarda, è bene in parte, con quella scintilla di perfidia sempre attiva.
Produzione messicana, ma lingua originale è l'inglese.

«Anagramma: trasposizione delle lettere che formano una parola o una frase, in modo da formare con esse una o più parole o frasi nuove, di diverso significato»

venerdì 18 novembre 2011

Kattegat

Häxan
(La stregoneria attraverso i secoli)
1922
Danimarca, Svezia
Regia: Benjamin Christensen
Scritto: Benjamin Christensen

Particolare esperimento nordeuropeo di miscuglio di generi, che ha il merito, a nostro parere giusto, di figurare, secondo celebri punti di riferimento cinematografico, fra i migliori cento horror della storia. Ma la definizione gli va stretta, è infatti un'opera equamente divisa fra documentario e fiction, con l'intento di ricostruire l'evoluzione della stregoneria nel tempo, inframezzando il tutto con una storia sullo stesso tema. Fonda la parte documentaristica sugli studi compiuti da Christensen, eccitati dall'acquisto del Malleus Maleficarum, libro tedesco del XV secolo scritto in latino, che era una sorta di guida all'Inquisizione. Lunga gestazione ha avuto lo script, dal 1919 al 1921.
Monumentalmente diviso in sette capitoli, fa originale uso di illustrazioni, foto di statue e modellini, dettagli di oggetti da tortura, atti a descrivere la base del mondo stregonesco, demoniaco e inquisitorio, partendo dai persiani e passando per l'idea antica di Terra, Universo ed Inferno e dando forte risalto al Medioevo, periodo culmine per questo tipo di credenze. Tutto spiegato con tanto di bacchettina per indicare, scelta dal voluto taglio informativo. Si arriva anche all'era moderna, con l'idea vieppiù diffusa di come quelle che si definivano manifestazioni sovrannaturali in realtà fossero malattie mentali sconosciute, quali la cleptomania, la piromania e quella che tempo fa era definita isteria, aggiungendo anche gli squilibri prettamente fisici, come l'insensibilità di alcune parti del corpo e le deformazioni. Coraggiosi poi certi parallelismi, come quello dei medici/inquisitori o delle docce bollenti degli istituti di cura, pratica forse in uso tempo fa, con il rogo.
E questa è il lato documentaristica, non dirà cose nuovissime per i nostri giorni, non sarà accuratissima, ma è comunque un ripasso che non fa male.
Le parte di finzione, divisa in diverse storie, è un filo più caotica. Il grosso parla di un'anziana accusata di stregoneria da una famiglia, poi inquisita da monaci, rea confessa e accusatrice a sua volta di chi l'aveva denunciata, ma c'è anche una prima parte con una strega sognante e donatrice di pozioni d'amore per perpetue che voglio sedurre preti, ed un'altra, molto bella, di un convento di suore infestato da Satana.
Dicevamo della parte principale, l'attrice protagonista è una bravissima non professionista, tale Maren Pedersen, fioraia, che racconta di sabba resi visivamente in maniera affascinante, fra voli di scopa ed orge, con make up e doppie esposizioni di assoluta rilevanza, tant'è che il regista ringrazia il direttore della fotografia Johan Ankerstjerne e l'art director Richard Louw nei titoli iniziali, dove, per inciso, compare anche lui stesso. Il gusto tecnico è ben presente per tutta la durata, molta cura riposta nelle dimensioni del campo, in 1.33:1, ristretto all'occorrenza da mascherini.
Riproposto in Danimarca con una nuova introduzione nel 1941, poi nel 1968 con tanto di narrazione del celebre scrittore William S. Burroughs, ha fatto la classica trafila per i film muti del continuo cambio della colonna sonora: dagli accompagnamenti dal vivo delle prime proiezioni fino a riedizioni jazz, sperimentali, ecc.
Costato la bellezza di 22 milioni di Corone svedesi di allora, circa due milioni e mezzo di Euro attuali, fu un grande successo in Danimarca e Svezia, fu invece inizialmente osteggiato negli Stati Uniti per le libertà descrittive.

cinema elettronico

Segnalo la disponibilità in formato eBook dei due libri che vedete nella colonna a destra, quelli della collana Moviement dedicati a Jan Švankmajer e Quentin Tarantino, dove sono presenti due miei corposi saggi: Dovete chiudere gli occhi, altrimenti non vedrete niente nel primo, ed è lo scritto di apertura del volume, e Cornici appariscenti nel secondo.
Acquistabili qui: JAN ŠVANKMAJER QUENTIN TARANTINO
Suggerisco anche uno sguardo al ben curato booktrailer della collana: BOOKTRAILER

giovedì 17 novembre 2011

innumerevole

Televisual Man
2004
Regno Unito
Regia: Steve Piper
Scritto: Steve Piper

Che si è all'interno e non all'esterno è percepibile fin dall'inizio, grazie ad una visualità in stile "catodico".
TV novella vertigo o pendolo, di quest'ultimo ne riproduce la ripetitività, quando parliamo di un certo tipo di messaggi. Siamo nello stesso tempo ipnotizzati ed ipnotizzatori, compriamo noi il biglietto del viaggio, un gesto che è il minimo indispensabile, tanto poi saremo guidati. Fra il nulla dello zero e l'infinito il passo è breve, il nostro salto è una conseguenza logica. Una macchinosità straniante, lunga, inesauribile: è avanti a noi, in noi, dietro di noi e via di questo passo...

sabato 12 novembre 2011

un po' scalinata di Odessa e un po' grindhouse

La pellicola che andremo fra poco a trattare è destinata a diventare una perla di occhio sulle espressioni, in seno ad una filosofia qui imperante. Spieghiamo: negli ultimi anni c'è stata una riscoperta del cinema bis, con particolare riguardo verso quello che fu nel Bel Paese. Ad alimentare il tutto riviste quali Nocturno e sue ramificazioni virtuali e trasmissione televisive come Stracult, che noi seguiamo regolarmente e non finiremo mai di ringraziare per coraggio e insana passione dimostrata. Esse hanno aiutato una consistente base di appassionati che, dopo il cartaceo, ha riversato sul web la sua passione, in siti, blog, forum, newsgroup.Ovviamente è stato un proliferare anche della materia prima, con riedizioni degne e meno degne di opere "di genere", spesso corredate da extra, il nome stesso spiega di cosa si tratta, che informano lo spettatore su curiosità, retroscena, sinossi, dati che sarebbe stato un po' più difficile reperire. In questa sede siamo particolarmente contenti anche dell'interesse per il nostro bis italiano perpetrato, in primis, da fruitori in USA e Francia (già, i nazionalismi li lasciamo ai potenti e al popolino reazionario, fra guerre, i "popopo" e le testate), ma anche Est Europa (Ciao, Alex!), America Meridionale, Giappone, ecc. Attenzione, è chiaro che non parliamo di Fellini, Antonioni, Bertolucci, De Sica e Loren, punti fermi da decenni, ma di Bava, Fulci, Freda, Sacchetti, Margheriti, De Rossi, Martino e via sul filone.
Unico parto un po' particolare, non di certo negativo ma solo caratterizzato da un po' di simpatica cocciutaggine, la nascita di una categoria: avete presente la reazione di Fantozzi e colleghi post golpe verso Guidobaldo Maria Riccardelli e i suoi classici? Quelli che lo hanno obbligato alla visione di bis veri e fittizi. Ecco, allora categorie portatrici di tali "valori" non esistevano, la parodia era solo verso il prode Guidobaldo, ora invece hanno preso forma. Trattasi di fan dediti alla visione di B-movie, e fin qui nulla di trascendentale. Il fatto è che spesso non riescono a percepire che tu hai un gusto e una percezione simile alla loro, soltanto perché non ti esprimi, tanto per dire, à la G-Max in Stracult. In loro vige un pensiero, del tipo: "questo è cinema vero, trasgressivo, verace, che picchia, dice le cose in faccia e simboleggia degnamente la mia apertura di pensiero". Spesso a nulla vale rispondergli che tu sei da millenni di quella parrocchia, che sei cresciuto a pane e Joe D'Amato, magari ornando il tutto con trombetta del cul. Se la tua impostazione stilistica è poco diversa, se dai spazio ANCHE alle avanguardie sovietiche e all'espressionismo, o sei una specie di Riccardelli o magari uno che non può capire quali meravigliose disinibizioni sussistono nel loro mondo, che, per inciso, aiuta loro anche con il sesso di interesse, tramite la figura da spacciare del simpatico "coatto ma colto". Insomma, a loro dedichiamo questa pellicola, perché occhio..., che si è sbizzarrito in merito più volte, quando propone, propone bene!

The Geek
1971
Stati Uniti d'America

Tre quarti d'ora di puro delirio! C'è il solito gruppetto di disinibiti in furgoncino Volkswagen, che questa volta va alla ricerca nientemeno che del Big foot. Ma l'utile va pari passo con il dilettevole e non c'è niente di meglio che dargli la forma di sesso agreste. Anche il Big foot è della stessa idea...
Difficilmente si è vista tale violenza verso il linguaggio filmico. Sfocature da antologia, tempi di inquadratura tedianti e zoom verso figure a centinaia di metri, fra traballamenti e accelerazioni e decelerazioni. Menzione per i titoli di apertura, che scorrono meccanicamente come si usava un tempo per altri scopi, anch'essi sfocati e perfino storti. Quelli di chiusura non esistono, a parte un THE END sbilenco; ricordiamo che non viene menzionata la crew, tuttora sconosciuta. Le prove attoriali, con Mycle Brandy e Lynn Holmes unici nomi venuti fuori, si limitano a qualche passeggiata inframezzata da copulazioni un po' annoiate e spaesate, rese tecnicamente senza né capo né coda; però molto "settantiane", gli esperti capiranno... Come si intuiva vi partecipa anche il Sasquatch, è lui il "geek", non ci sono maniaci di tecnologia, ma la reazione delle sue vittime è equamente divisa fra disagio e piacere. Lui, esso, è agghindato con un costume tipo quelli presenti nei negozi di articoli da regalo d'annata.
Anche qui presente, come prassi di tanta exploitation, la figura dell'"esperto" in apertura, che dà avvertenze sulla visione; peccato che stavolta la sensazione di taglio scientifico è assente, pare anche lui allucinato.
Insomma, ci è piaciuto? Certo che sì, è weird, dà sensazione di realismo, amiamo questo genere di opere!

mercoledì 9 novembre 2011

강성대국

도라지꽃 (Dorajee ggot)
1987
Corea del Nord
Regia: Kyun Soon Jo
Scritto: Choon Goo Ri


Natura che parla. In casi come questo c'è poco da riprodurre scenograficamente. Intento, funzionale alla trama, di mostrare le bellezze montane a pieno compimento. Intento intersecato nella teoria del valore della terra natia, della valorizzazione d'essa come parte di un progetto territoriale, dove tutti e dovunque devono fare la loro parte per la crescita del luogo. È spesso male cedere alle lusinghe di una vita più facile e Park Won Bong lo capirà. Abbandonare il suo villaggio sul monte Tugyŏn, nella Repubblica Popolare Democratica di Corea, per le luci cittadine lo segnerà a fondo, per esse ha perso Jin Song Lim, incantevole come una campanula ("도라지꽃", "dorajee ggot" in coreano), fiore che è la significativa bellezza del luogo abbandonato. Lei, invece, è rimasta a compiere il suo dovere, addirittura sacrificando la propria vita per la causa. Park Se Ryong, figlio di Won Bong, capirà l'errore del padre e cercherà di vivere ciò che lui ha perso.
Gli splendidi posti da cartolina, con il verdeggiare, i ruscelli, i ghiacci, gli animali al pascolo, si esprimono entro un rapporto d'aspetto dal valore storico come il 1.37:1, sotto la guida fotografica di Tae Kook Choi e Se Woong Park e di quella scenografica di Jon Il Son. Magari l'utilizzo della lente anamorfica avrebbe aiutato la resa degli sterminati paesaggi, ma sappiamo che l'avanguardia tecnologica non era lì di casa, al massimo si è usato un filtro per amplificare la "giusta" eroina protagonista.
È la propaganda della "Kangsŏng Daeguk", la "nazione potente e prospera", quella che però spaccia una società divisa in caste, gerarchica, con un culto della personalità pari ad una vera e propria religione, palesemente anticomunista per una di linea socialista. Però non ci si trova davanti al battage tipico delle avanguardie, ma trattasi di realismo socialista, colorato, melodrammatico ma anche allegro, comprensivo di siparietti musicali. E non è stato di certo messo in secondo piano l'apparato delle sette note, ottimo è il lavoro di Hwang Jin Yong.
Nonostante le spille di Kim Il-sung sulle giacche, è bello vedere un'impostazione così semplicemente romantica nel 1987, sembra di rivedere alcuni classici degli anni Sessanta, neorealismo italiano compreso. In tema di salti nel tempo, nella pellicola presenziano dei flashback, che però sono troppo simili stilisticamente agli avvenimenti che accadono nel presente: è il nostro occhio poco abituato a vedere il presente ed il passato di un Paese sostanzialmente immobile da alcuni punti di vista o la realizzazione non è stata impeccabile (forse per via di scarsa disponibilità economica), nonostante l'uso di giuste transizioni.
Forse unica esperienza ufficiale di regista, scrittore, protagonisti ed elementi della crew, ma i dati provenienti da certi luoghi sono, come ben noto, incerti.
Conosciuto nel mondo (si fa per dire...) come A Bellflower, e Eine Glockenblume nella distribuzione tedesca.

lunedì 7 novembre 2011

pappa buona!

八仙飯店之人肉叉燒包 (Bat sin fan dim ji yan yuk cha siu bau)
1994
Hong Kong
Regia: Danny Lee, Herman Yau

Scritto: Law Kam Fai

Cult ben conosciuto fra gli appassionati di cinema orientale, tant'è che viene ricordato fra gli horror/thriller di Hong Kong di maggior rilievo e collocato nell'insieme dell'exploitation e qualche suo sottogenere, ad esempio la shockploitation. Si proclama basato su un fatto di cronaca davvero accaduto, una delle sue locandine recita: "based, unfortunately, on a real events", ed effettivamente la storia è verosimile, aggiungiamo anche noi purtroppo.
Wong Chi Hang fugge da Hong Kong, dove ha perpetrato un omicidio, per rifugiarsi a Macao, vivendo con la gestione di un ristorantino; ma il lupo perde il pelo, è proprio il caso di dirlo visto che nel passaggio cambia aspetto fisico rasandosi, ma non il vizio.
C'è poco da sottovalutare nel giudicare questo film. Per quanto citato come violento e basta, è realizzato di tutto punto: è anche comico, oseremmo dire con una soffiata slapstick, ma prevedibilmente siamo sempre entro un ambito grottesco, che parte molto marcato all'inizio e va, volutamente, man mano affievolendosi per far posto alla serietà. I personaggi da sorriso tirano fuori lati truci, le vicende da prese sottogamba diventano meritorie di seriosità, fino al climax finale. Ciò spiazza lo spettatore, che si ritrova a dover sgranare gli occhi, provando disagio per la violenza perpetrata, mai sopra le righe, ma cinica, freddissima e schematica, con tanto di ornamentale cliché cinematografico che non sveliamo. Questo fa di The Untold Story, come conosciuto internazionalmente, una pellicola sconsigliata non solo ai deboli di stomaco, recettivi al lato organico, ma anche a coloro di facile turba psichica, perché qui "non si fanno prigionieri", ce n'è per tutti, anziani e bambini compresi, e pure per il protagonista, il premiato miglior attore agli Hong Kong Film Award del 1994, Anthony Wong Chau-Sang. Dopo la visione c'è da avere un diverso rapporto empatico con i tipici ristoranti di Repubblica Popolare Cinese e sue amministrazioni speciali, magari abbandonando il sogno di visitare questi luoghi. Perché è il desiderio di milioni di italiani mangiare in un posto tipico di Macao, nevvero? A proposito: interessante, per i più attenti, l'ambientazione, utile a rendere idea di come poteva essere la vita nel luogo, ancora sotto gestione portoghese. Presenti anche parallelismi fra la regione e Hong Kong, e brevissimamente anche con la Cina continentale, forse voluti, forse una critica all'uno o all'altro, chissà!
Score musicale minimo, molta più importanza ai dialoghi.
In lingua cantonese, ma ben reperibile sottotitolato in italiano, grazie ai soliti benemerti che ci permettono di gustare queste perle.
Ha avuto due seguiti, oggi definiti "reboot", con vicende slegate dall'originale.
Il regista Danny Lee è anche produttore ed interprete della figura dell'ispettore.

giovedì 3 novembre 2011

custodia d'anima

マロニエ (Marronnier)
2004
Giappone
Regia: Hideyuki Kobayashi
Soggetto: Junji Ito
Sceneggiatura: Hideyuki Kobayashi

Solitudine e incomprensione umana, tale da generare una deviazione dell'amore verso oggetti che perdono la loro natura, forse presunta, e si caricano di emozioni in loro trasmigrate (cfr. Jan Švankmajer http://occhiosulleespressioni.blogspot.com/search/label/Jan%20%C5%A0vankmajer ). Difficoltà nello scindere il bene dal male, unendoli. Totale nichilismo nel rapporto fra sessi e sulla comprensibilità dell'universo femminile. Le entità assorbitrici sunnominate sono quelle che a vista semplice più si prestano alla cosa: bambole. Bambole che il Giappone ha sempre tenuto sul palmo innalzato, pregne di storia, con significati profondissimi e in tempi recenti immagine di moderno ed antico in armonia.
Sono esse (loro?) più umane di noi? Meritano più attenzioni del prossimo? Ci aiutano più del prossimo?
Qui riportano in auge il mito di Pigmalione ed Eburnea!
Ma forse noi uomini non siamo così diversi, anche noi siamo in balia di burattinai, del destino, spesso anche quando ci illudiamo che non sia così.
Opera unica di Hideyuki Kobayashi (su alcune fonti chiamato Akira), anello mancante fra proposta amatoriale e lavoro professionale, nonché ottima commistione di arti.
Stavolta il termine "videoclipparo" assume accezione positiva, le immagini scorrono veloci come i pensieri nelle menti allucinate dell'antagonista. Ad addolcire ci son transizioni, a ricordarci che non esistono solo flussi negativi, in più sussistono filtri, delle sfocature che rendono l'atmosfera surreale, creati in post produzione, essendo un lavoro digitale. Però attenzione, questi, nei topoi del cinema, incorniciano momenti sognanti, qui no, qui sottolineano la percezione del sinistro, del sovrannaturale. Tutto questo rende regia e fotografia davvero uniche, ricordando che Kobayashi è artefice di entrambe, come del montaggio e di parte delle buone musiche.
Cali di tono recitativo, normale, visto che stiamo parlando di attori alla loro prima ed unica esperienza, props palesemente finti, forse ad amplificare la presenza di oggetti rapportabili al giocattolo (le bambole), ma poco credibile come cosa, non danneggiano però un film ingiustamente passato inosservato, a beneficio di altre opere nipponiche di minor incisione.
Ci sono momenti comici e personaggi macchietta, che iniettano attimi di arcinota tendenza "fumettosa"; forse per una volta se ne poteva fare a meno, ne sarebbe venuto fuori qualcosa di totalmente malato, già di per sé tale con la presenza di Hiroto Nakayama nel ruolo di Soichiro Numai, con la sua folle rilassatezza.
Tratto da un manga di Junji Ito, lo stesso autore di Uzumaki, e si nota la somiglianza di commistione di delirio e sottotesto; vale la visione anche solo per la presenza scenica dei pupazzi, creati anch'essi dall'abile mano di Kobayashi, che prima era noto proprio per questo, difficilmente visti così altrove.

domenica 30 ottobre 2011

due puntini


Una notte al Ghibli
Samuel Marolla

Ritorniamo sul bravo Marolla già qui discusso, attivo nel campo della narrativa e del fumetto, con questo agile racconto di venti pagine.
Il jazz bar Ghibli di Milano, nome che deriva dall'appellativo libico dello Scirocco, diventa per una notte il centro del mondo, dove il proprietario Mamoulian, anche lui arrivato dalla Libia, e Pietro Orziero, comandante dei RIS, si racconteranno due storie incredibili, due eventi che mostrano l'universo in maniera differente, dove i confini tracciabili della materialità vengono scavalcati. Il loro sarà un vomito d'anima, che li fa apparire insignificanti, semplici pedine rispetto a cose gigantesche, inimmaginabili, ma non distanti come leggende tramandate, anzi, vicinissime. Appartenenti alla sfera familiare, per il nordafricano, a quella lavorativa per Orziero.
Al fine della notte non avranno vissuto soltanto una liberazione interiore, ma anche una presa di coscienza sull'impotenza umana, che riserva a noi la facoltà di non poter comprendere tutto e di accettare la cosa.
Fantastica come al solito la copertina dei Diramazioni, che si fanno valere anche nel campo degli eBook.
Scaricabile gratuitamente dal sito dell'autore (http://www.samuelmarolla.com/shop.html), in formato PDF, ePub e MOBI.

FUN COOL! - edizione 7


Nuova edizione per il simpaticissimo concorso indetto da Gelostellato, a cui può partecipare chiunque scriva un racconto senza interruzioni, e per esse si intendono i punti. Già, proprio i segni di interpunzione.
Una vera espressione di massa, con tanto di premi!
Il regolamento è tutto qui: http://ilblogdigelo.blogspot.com/2011/10/fun-cool-7-edizione-il-regolamento.html
Noi abbiamo dato il nostro tributo di sangue, come già accaduto in passato. E voi?

mercoledì 26 ottobre 2011

dolcezza fatale

ロボゲイシャ(Robo-geisha)
2009
Giappone
Regia: Noboru Iguchi
Scritto: Noboru Iguchi

Quando si è in cerca di puro intrattenimento, senza inondazioni intimiste, è d'uopo buttare un occhio sul Sol Levante e le sue follie.
Questa pellicola può essere racchiusa in un insieme definibile come "gore divertissement". Celebri esponenti d'esso sono titoli quali Meatball Machine (che è un remake) e suo spin-off Reject of Death, Kataude mashin gâru, conosciuto da noi come The Machine Girl, con spin-off  The Hajirai Machine Girl (Shyness Machine Girl) e Tôkyô zankoku keisatsu (Tokyo Gore Police) di Noboru Iguchi, creatore anche di quello che stiamo per esaminare. I suddetti sono legati fra loro, oltre che per casa di produzione (gli ultimi tre), anche per via di incroci artistici: il regista di Tokyo Gore..., Yoshihiro Nishimura, è stato portato in quel ruolo dopo aver creato effetti e make up in The Machine..., così come in Meatball..., in più ha anche diretto, fotografato ed ha recitato nello spin-off di Meatball Machine. Iguchi ha diretto dei fake trailer presenti in Tokyo Gore... e stessa cosa ha fatto Yûdai Yamaguchi, director di Meatball Machine. Un filo conduttore tortuoso ma simpatico, segno che l'individualismo può essere messo da parte per far posto ad una sana collaborazione.
Veniamo a quest'altro parto di Iguchi, RoboGeisha, che ha dalla sua anche una storia non male. Una coppia di sorelle maiko, aspiranti geishe, vengono invitate in quella che ufficialmente è un'industria produttrice di acciaio, ma che nasconde un'insana associazione che vive per il progetto di distruggere un Giappone, a parer loro, ormai alla deriva. A questo scopo addestrano delle geishe, elementi chiave per arrivare vicino a personaggi importanti ed eliminarli. La minore delle sorelle, Yoshie, è stata fiutata come possibile punta di diamante, ed entrambe finiranno per far parte dell'idea devastatrice. La tecnologia a disposizione è all'avanguardia, alle ragazze vengono impiantate componenti meccaniche, rendendole macchine da guerra. C'è però qualcuno che trama contro, e la cosa darà modo anche alle due protagoniste di redimersi.
Se la trama base pare seriosa così non è per la forma e il resto. Come gli altri film del succitato insieme, è tutto virato verso una voluta esagerazione, un divertente ed onnipresente stile sopra le righe, presente dalla coloratissima fotografia, fino alla caricate interpretazioni, dai dialoghi surreali agli effetti; una totale ironia totale che rende il titolo più una commedia che altri generi cinematografici. Ci sono gli omicidi, le violenze, ma resi grotteschi, sopiti da un'impostazione giocosa che annulla la truculenza, grazie anche all'inventiva "cartoonesca" di effetti speciali, make up, costumi, scenografie e props. C'è da dire che la componente splatter è poco accentuata, molto meno presente rispetto alle opere simili, che invece facevano di essa un punto saliente, nonostante la "plasticosità" e il taglio burlesco.
 In parte gli interpreti, specialmente la simpatica protagonista, Aya Kiguchi, e curiosamente estremizzante la presenza di Asami, attrice anche pornografica e quasi feticcio di Iguchi, che si era fatta apprezzare anche in The Machine Girl (e diremmo anche giù il cappello!). Qui interpreta la parte di un Tengu, le celebri creature del folclore nipponico. Già, perché il film è anche pieno di elementi del Giappone tradizionale, ma non di quelli indecifrabili per gli occidentali.
In negativo, ci hanno convinto poco le lunghe sequenze sentimentali, non sappiamo quanto volontariamente parodistiche, ma un po' troppo stucchevoli.
Insomma, da guardare con la consapevolezza che si tratta di un enorme balocco in 35 mm, che non è adatto per porsi più di tante domande. Forse un certo sottotesto sulla pericolosità delle armi di distruzione di massa e chi le detiene, sull'uso della tradizione di un Paese come metodo per assoggettare, sulla decadenza dello stesso e uno sfottò verso i formalismi è presente, ma chissà quanto ricercato...
Adatto anche ai nostri cinema, farebbe un figurone, e in più ci insegnerebbe che per divertire non è necessario raccontare continuamente storie di liceali in scooter, starlette amanti o volgarità tediose.

sabato 22 ottobre 2011

la paura nei suoi occhi e il coltello nel suo petto

Angst
1983
Austria
Regia: Gerald Kargl
Scritto: Gerald Kargl, Zbigniew Rybczynski

Lui si procura eccitazione e appagamento tramite violenze metodiche, crude, senza estetizzazioni e dettagli di contorno, tutto come il cadere di una goccia, presente in forma sonora all'inizio ed alla fine: incisivo e preciso, macchinoso e ispirante. Da piccolo è stato con la nonna; la madre, che aveva cacciato il padre di casa, non lo voleva. Successivamente, dopo "piccole" storie, ritornò a casa, ma veniva maltrattato dal subentrato patrigno, dalla sorella, dalla madre... Madre che poi uccise, poi toccò ad un'anziana. Tutto ciò successivamente avrà legame simbolico con delle azioni.
L'insieme degli avvenimenti è mostrato nella sua interezza, perché ogni attimo è utile allo scopo, eventuali ellissi non renderebbero bene l'idea. Le vittime non sono persone con una loro storia, come fotografie trovate vorrebbero rendere noto, come il loro posto nella società vorrebbe far credere, come mostrano le loro debolezze, vizi e curiosità, ma sono oggetti utili ad un fine, soltanto un tramite. Di qualsiasi età esse siano, sesso, condizione di salute, non fa differenza. Pupazzi da manovrare, i loro corpi sono giostrabili sia di vivi che da morti.
Il suo fine è solo benessere psicofisico, via tutti gli ostacoli terreni!
Viene inquadrato in maniera nervosa e veloce, con steadycam, per mostrare l'animo isterico; dall'alto, con la gru o la louma (e complimenti a direttore della fotografia e operatore di ripresa Zbigniew Rybczynski, che è anche montatore e coautore dello scritto) per simboleggiare un giudizio esterno, sano, anche se lui continua a parlare, essendo il narratore diegetico.
A proposito dei citati ostacoli, alla fine ne arriverà uno fatale: ergastolo, lui è impossibile da curare.
Tutto in un'Austria inaspettatamente torbida, l'ispirazione proviene dalla storia del pluriomicida Werner Kniesek.

mercoledì 19 ottobre 2011

la cura

Hardgore
1974
Stati Uniti d'America
Regia: Michael Hugo

Anno Domini 1974: gli Stati Uniti possono da poco usufruire dell'ufficialità pornografica, e titoli come Mona e Gola profonda, sono ormai una realtà commerciale. Stiamo parlando di film ove sussiste anche una trama, mentre le sperimentazioni pure, senza influenze, erano già apparse agli albori del cinema.
Arriva questo titoletto che farebbe pensare ad una commistione eguale di adult e horror, ma l'ago della bilancia pende decisamente verso il primo genere; sta di fatto che ci troviamo davanti al primo mix dei due generi, cosa non da poco.
La protagonista Maria è ricoverata in una clinica, allo scopo di curare la sua ninfomania: peccato che nel luogo avvengano riti orgiastici, con tanto di sacrifici umani, necrofilia ed eventi lisergici.
Povero allo stremo, il plot e i lati gore sono una scusa per mostrare lunghe sequenze di sesso, tra l'altro senza arte né parte, noiose al giorno d'oggi, ma sicuramente allettanti al tempo.
Di interessante c'è il clima malsano imperante, che più che aumentare la qualità della pellicola, aiuta a renderla più cult, più oscura, un oggetto più importante da nominare e possedere che da godere. Ad aumentare questo aspetto c'è l'assenza di credits di apertura e di coda, addirittura non viene nominato neanche il regista Hugo. Gli interpreti, risalendo ai nomi, si connotano per essere interpreti di genere.
Se pare che certi virtuosismi di camera sia forzati, se fa capolino anche un microfono, bisogna invece riconoscergli una certa visionarietà di stampo "seventies", con punte d'effetto nella sala "obitorio" e nel pessimistico finale.
A chi scrive ha riportato alla mente il qui recensito The Forgotten.
Si abbeverino fan di weird exploitation.

sabato 15 ottobre 2011

irrefrenabile ebbrezza

女虐: NAKED BLOOD Nekeddo burâddo: Megyaku
1996
Giappone
Regia: Hisayasu Sato
Scritto: Taketoshi Watari

Il dolore è un contrappunto alla felicità oppure una sua componente? È importante la sua presenza nel nostro essere? Forse è ancor più importante, è un fulcro vitale?
C'è un ufficiale esperimento anti procreazione, tre ragazze sono le cavie, ma un baby scienziato diciassettenne, Eiji, che ha progettato un siero speciale, avrà modo di "infilarsi" in esso ed iniettare la sua sostanza. La sua scoperta è uno stimolatore di endorfine, aumentate a dismisura parallelamente al dolore fisico, che verrà trasformato in piacere.
Tre sono le donne e tre sono i casi personali: in un uno c'è un'ossessione per il cibo, in un altro per la bellezza, nel terzo non si dorme e si vive uno stato estatico particolare.
Nel primo: mangiare, mangiare, mangiare? È davvero piacere? Fin dove può spingersi questa esigenza? Cos'altro si può mangiare? L'exploit di endorfine farà prendere coscienza che la via finale è quella che prima era dolore.
Stesso dicasi per il culto della bellezza: algia = benessere, e il modo di procurarselo sarà "a tema" con la fissazione.
La terza cerca il silenzio, lo troverà, tramite un'apparecchiatura, in uno stato onirico che ha trovato in una pianta; non una pianta, a suo dire, rumorosa come le altre, ma un cactus, adatto alla simbiosi con esso.
Lei donerà anche la sua attuale concezione di piacere ad altre persone, ragazzo protagonista e altre cavie comprese, portandoli in uno stato di... silenzio. Eiji prima di ciò, aveva fatto uso della sua sostanza, e con il suo dolore, se così si può dire, si unirà a lei, quindi al cactus...
La diffusione del piacere sperimentale continuerà poi nel tempo.
Alternato a tutto questo c'è il mondo della dottoressa che doveva dar via al tentativo anticoncezionale. Madre di Eiji. Il padre è scomparso da tempo, era un megalomane, aveva ambizioni più grandi di lui! Lei non voleva approvarlo da questo punto di vista, ma finirà per... accettarlo.
estatico onirico
Che musica soave che c'è!