OCCHIO: degustazione, esegesi...   ESPRESSIONI: visioni, letture, arte...

venerdì 30 settembre 2011

scambio

Каток и скрипка (Katok i skripka)
(Il rullo compressore e il violino)

1961
Unione Sovietica
Regia: Andrej Arsenevič Tarkovskij
Scritto: S. Bakhmetyeva, Andrej Končalovskij, Andrej Arsenevič Tarkovskij

Il giovanissimo violinista Sasha, piccolo e fragile, conosce Sergei, addetto al rullo compressore, persona umile ed onesta. Nascerà un'amicizia, purtroppo "controllata".
Terzo film di Tarkovskij, un mediometraggio di tre quarti d'ora, con cui ha potuto diplomarsi al prestigioso istituto cinematografico VGIK. Era un periodo "kruscioviano" di leggera apertura in URSS, e l'opera ne è un soddisfacente specchio: nonostante sia legata a temi classici del realismo socialista, introduce innovazioni sia dal punto stilistico che da quello del messaggio. Il ragazzino, nella prima parte, gira per una Mosca da dipinto, un filtro che divide il quadro in più punti ed un gioco di specchi rendono la sua visione affascinata e sognante, una moltiplicazione dell'immagine che ci mostra l'animo di un bambino che amplifica la realtà, rendendola migliore. Elemento ricorrente è anche l'acqua, al solito, simbolo di vita, presente per tutta la pellicola. Fa da elemento trainante alla crescita educativa del bambino perpetrata da Sergei, da sfondo alla rinascita architettonica (bellissimo il campo profondo con il palazzo del Ministero degli Affari Esteri che spunta dietro un palazzo abbattuto), ed è presente anche nel finale, seppur minimamente. Il tema portante mostra l'operaio che insegna le basi del vivere a Sasha e lui, dal suo piccolo, spiega le fini delizie dell'arte. Evidente possibilità convivenza fra il proletariato e il mondo artistico, entrambi hanno da insegnare all'altro, che umilmente riceve nozioni. Cosa succede poi? Arriva la madre del piccolo, che gli impedisce di vedere l'amico, con cui aveva in programma di andare al cinema a vedere Ciapaiev (1934). Un fare da despota, condito da presunte giuste motivazioni, è qui rappresentato, la comunione non è possibile per via di una visione superficiale, tutto deve rimanere entro rigide basi, non viene seguito il volere popolare. Una critica al sistema sovietico? Può darsi.
Non sono solo lenti ed acqua a felicitare lo spettatore. C'è anche l'intensa interpretazione dei protagonisti e i tratti caratteristici di Tarkovskij già presenti: uno su tutti, il generale ritmo cadenzato, la lentezza delle carrellate, in contrasto alla frenesia di certe produzioni avanguardistiche di decenni prima.

martedì 27 settembre 2011

smorfie

Дневник Глумова (Dnevnik Glumova)
1923
Unione Sovietica
Regia: Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Il diario di Glumov, realizzazione nata per essere uno scorcio cinematografico sperimentale in una rappresentazione teatrale messa in scena da Ėjzenštejn e da Sergei Mikhailovich Tretyakov, Mudrets, adattamento di Na vsyakogo mudretsa dovolno prostoty (Anche il più furbo ci può cascare), dell'autore Aleksandr Ostrovsky. Nonostante la particolarità della cosa è, a tutti gli effetti, il primo cortometraggio di Ėjzenštejn, appartenente alle produzioni del Proletkult, movimento nato per creare e diffondere arte proletaria.
Al di fuori del contesto è difficile seguire la vicenda, a capire le simbologie, i luoghi ed i tempi, ma paiono presenti anche rimandi politici e religiosi.
Embrione del "montaggio delle attrazioni", con grande uso di tecniche quali le sovraimpressioni e la transizione "iride", quest'ultima a caricare ulteriormente primi piani e dettagli.
Camera generalmente fissa, e sulla scena compaiono spesso due elementi in dialettica, purtroppo, ripetiamo, non percepibili a fondo se si è estranei allo spettacolo teatrale.
Elementi curiosi e all'avanguardia sono il mostrare una bobina cinematografica e la presenza dello stesso Ėjzenštejn all'inizio, due interessanti assaggi di metacinematografia, un'autoreferenza che, all'interno di un'opera nata per maggiori funzionalità teatrali, rimarca anche le qualità del mezzo cinema.
Da ricordare che è stato recuperato da Dziga Vertov ed incluso nel suo Kino-pravda no. 16.
Il Prolekult ha avuto vita breve (1917-1925), ma ha mostrato arte fuori dalle linee standard, forse prematura, o forse davvero utile alla causa.

mercoledì 31 agosto 2011

rinunce

Le laboratoire de l'angoisse
1971

Francia

Regia: Patrice Lecone
Scritto: Patrice Leconte

In un laboratorio, l'inserviente Antoine è perdutamente innamorato di Mademoiselle Clara, unica donna presente fra le fila di scienziati dalle barbe fluenti. La sua fissazione non ricambia, nonostante lui cerchi in tutti i modi di mettersi in evidenza, aiutando con fervore nelle mansioni lavorative. Non riesce neanche ad... incantarla, l'immagine di lei rimarrà chiusa in una dimensione esaltatrice. La cosa proseguirà in maniera ossessiva, e l'uomo, distratto dalla presenza, combinerà pasticci di ogni genere con gli strumenti del laboratorio, arrivando anche a farsi del male tramite contatto con le sostanze chimiche; il dolore non verrà avvertito, troppo forte è la passione. In conclusione, se lei non concederà la sua mano sarà lui a farlo...
Rappresentazione, più che dell'amore, dell'uomo sottomesso, piegato, senza dignità né orgoglio, che arriva ad annullare se stesso in nome di un interesse. L'oggetto donna svetta su altre necessità, è un trionfo di istinti primordiali. Non viene mostrato come agiscono gli altri colleghi, ma è pensabile anche una tipicissima situazione in cui la solitaria presenza muliebre è colmata di attenzioni interessate da parte di tutti, con tanto di tattiche falsità per arrivare allo scopo, spersonalizzazioni, che non fanno altro che ledere sul piano dell'uguaglianza. Oppure, si spera, gli altri soggetti vogliano un minimo di bene a loro stessi...
Se si arriva a distruggersi psicologicamente e fisicamente a cosa è utile un rapporto di coppia?
Seconda opera di Leconte, di quando ancora non aveva deciso di dedicarsi anche al ruolo di operatore di ripresa, per essere ancora più addentro.

sabato 27 agosto 2011

parzialità

Quante volte... quella notte
1972

Italia
Regia: Mario Bava
Scritto: Guido Leoni, Mario Moroni, Carl Ross


In questo blog, incredibilmente, non si è mai parlato di Mario Bava. I motivi però esistono e sono la consapevolezza che ormai si è detto quasi tutto sul suo conto (esiste, fra altre pregevoli pubblicazioni, anche un tomo biografico di oltre mille pagine, scritto dallo statunitense Tim Lucas), e la presenza di una sorta di timore reverenziale; il maestro potrebbe essere, anche se siamo contrari a dichiarazioni assolutiste, il cinematografaro preferito di chi scrive. Vogliamo comunque fornire un affondo tramite questo titolo, appartenente alla cerchia di quelli meno famosi.
Commedia a tinte erotiche, che fa della raffinata confezione il suo forte. Fascino pop, del tipo che ha trovato maggior fortuna in Diabolik (1968), ma che qui non è da meno, anzi, si erge a sostegno principale della pellicola. Le presenze, in particolar modo quelle "agghindate", formano un tutt'uno artistico con la scenografia, una specie di reminiscenza degli attori espressionisti che si uniformavano allo scenario. Plauso anche a scenografo e costumista (Blanda), quest'ultimo avrà fatto felici gli estimatori di moda del tempo e aggraderà quelli attuali appassionati di vintage.
La vicenda, cui Mario non ha partecipato in sede di scrittura, è meno debole di quanto si legge in altre sedi: una storia notturna raccontata da quattro prospettive diverse, con tanto di spiegazione accademica circa la soggettività. Non assenti momenti ingenui ed ironia opinabile, ma il maestro ci metta una pezza tecnica. Uso magistrale della camera, in particolar modo nell'ambiente ristretto dell'appartamento fulcro del tutto. Lo zoom, strumento di semplice correzione di ripresa in mano a molti, con Bava diventa arte, una sua nota firma adattata perfettamente ai contesti. Angolazioni, altezze, tipo di piani, sono, senza mezzi termini, esempi per chi vuole studiare nel campo della ripresa cinematografica e non. Il regista non è accreditato alla direzione della fotografia, ma vi ha partecipato insieme al più volte collaboratore Antonio Rinaldi.
Gradevoli le musiche di Lallo Gori, tassello di tante produzioni "di genere".
In realtà il film è stato girato nel 1969 e l'atmosfera del periodo c'è tutta.
È conosciuto anche come Quattro volte... quella notte, tra l'altro traduzione letterale del titolo per la distribuzione all'estero.

mercoledì 24 agosto 2011

due primati

Quali sarebbero queste due vicende prime?

Le manoir du diable, del 1896, ad opera dell'immenso Georges Méliès è considerato, non a torto, il primo horror della storia cinematografica. Gli stilemi ci son tutti: luogo infestato, presenze demoniache, scheletri e pipistrelli, con tanto di finale esorcizzante.
È un Méliès ancora acerbo, che sperimenta tecniche in seguito più affinate. Il montaggio per creare sparizioni ed apparizioni è a tratti buono ad altri confusonario, lo scenario è scarno. Globalmente la resa è comunque soddisfacente, ancora non si raggiungeva il Novecento e tutto ciò che viene mostrato è altamente avveniristico. La trama è ben articolata, nei circa tre minuti di durata, ha senso e al tempo sicuramente poteva portar tremori fra le platee.
Il secondo primato? Un esordio di presunto plagio cinematografico, ad opera di George Albert Smith, con il suo The Haunted Castle, arrivato nel 1897. Smith era una personalità eclettica, dedita a tante mansioni, nonché inventore del sistema di colorazione filmica nomato Kinemacolor.
Nella sua pellicola compaiono forti analogie con l'altra, in primis per l'aspetto della scenografia e per il tipo di presenze che l'infestano. La durata è però ridotta ad un terzo dell'altra opera ed il finale è diverso. Tecnicamente molto più semplice, uso base del montaggio e apporto "indiretto", senza che venga manipolato in scena, del background.
A complicare il tutto c'è il fatto che Le manoir... è stato proiettato in Gran Bretagna proprio sotto il nome di The Haunted Castle.
Ma la soluzione dell'enigma è nella conoscenza fra i due artisti, che possono benissimo aver scambiato idee poi applicate da entrambi, inoltre, nel 1902, hanno collaborato alla realizzazione della pellicola Le couronnement du roi Édouard VII.
Un'altra curiosità: il film di Smith potrebbe essere il secondo horror della storia, ma del 1897 sono anche L'auberge ensorcelée, L'hallucination de l'alchimiste e Le cabinet de Méphistophélès, sempre con richiami d'orrore e sempre di Méliès. A sciogliere l'enigma dovrebbe essere il mese di uscita, ma sono dati difficili da reperire.

martedì 9 agosto 2011

ipofisi molesta

Собачье сердце (Sobachye serdtse)
1988

Unione Sovietica

Regia: Vladimir Bortko

Soggetto: Mikhail A. Bulgakov

Sceneggiatura: Natalya Bortko


Continuando il discorso Bulgakov, passiamo alla rappresentazione di un altro classico: Cuore di cane. Produzione in due parti degli studi Lenfilm, destinata alla televisione proprio come lo sceneggiato italiano di Ugo Gregoretti Uova fatali. Eccezionalmente fedele, tranne che per alcune piccolezze che andremo a riassumere più in là, dai dialoghi all'idea scenografica, fino agli appellativi.
Siamo in pieno campo sci-fi, quello ripieno di satira, vicino alla commedia. Gli scritti "bulgakoviani" troppe volte sono stati descritti fin troppo superficialmente, più volte l'artista è stato strumentalizzato, senza mezzi termini. Magari siamo noi ad avere una diversa opinione, ma non facciamo mistero di essa. In quest'opera non si salva nessuno, né la società sovietica ormai male incanalata, distante dai buoni propositi innovativi, ormai in controrivoluzione per cause varie e pregna di retorica forzata, né i borghesi niente affatto sradicati, né i singoli individui e la loro intrinseca cattiveria, né la scienza, a tratti colma di deliri di onnipotenza. Il cane trasformato in uomo, Poligraf Poligrafovich Sharikov, è un delinquente, non di certo un socialista, menefreghista, che non si fa problemi a rubare nella cassa destinata all'acquisto di beni in comune e non supporta Engels. Il professor Filipp Filippovich Preobrazhensky, per quanto bravo medico di fama internazionale, nonché persona dalla capacità autocritica e non violenta, è egoista e pedante, pieno di sé, a cui non si può parlare di uguaglianza secondo concetti quali «da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni». Il suo assistente, dottor Bormenthal, è sì pacato e gentile, ma anche troppo succube del professore. Si salva solo il buon cane Pallino pre operazione, con prerogative istintive, ma umile, per nulla pretenzioso, oculato e profondo di giudizio; se la società fosse stata di "pallini" la rivoluzione avrebbe potuto avere il suo seguito in terra russa e al di fuori. Insomma, questa versione TV del romanzo induce agli stessi spunti della lettura; se ci si ferma a riflettere sull'avventatezza delle scienza che si è spinta troppo in là, su situazioni sociali del XX secolo, vuol dire che il lavoro è di gran pregio.
Dicevamo delle differenze: nel romanzo Bormenthal non incontra il personaggio della dattilografa nel cinema, come avviene in TV, né vi è il momento in cui Sharikov viene mostrato al pubblico e si esibisce in uno show con la balalaika. In più, la scena della seduta spiritica e la sequenza del circo sono prese da altre opere di Bulgakov, citazione eseguita anche con l'inserimento del nome di uno dei due scienziati intervenuti a vedere il "miracolo": Persikov, come lo studioso di Le uova fatali.
Il direttore della fotografia, Yuri Shajgardanov, ha preferito il bianco e nero (nella versione in nostro possesso v’è un bellissimo seppiato), per dare l'idea di antico. Formato 1.33:1 televisivo e niente virtuosismi di ripresa, presente una discreta staticità, che però non appesantisce la narrazione, dà invece un tocco stilistico intellettuale; idem per il montaggio. Azzeccati i caratteri, in particolare Poligraf Poligrafovich, interpretato da Roman Kartsev.
Vincitore del premio per la fiction del Prix Italia del 1989.
Bortko tornerà nuovamente su Bulgakov nel 2005, con una serie TV in dieci episodi dedicata a Il maestro e Margherita.

martedì 2 agosto 2011

il rosso sbagliato

Uova fatali
1977

Italia
Regia: Ugo Gregoretti

Soggetto: Mikhail A. Bulgakov

Sceneggiatura: Ugo Gregoretti


Sceneggiato televisivo tratto dall'immenso lavoro di Bulgakov, spesso ricordato insieme all'antecedente e notoriamente anch'esso bulgakoviano Cuore di cane di Alberto Lattuada, non originariamente per la TV.
Diversamente da Il segno del comando e dintorni, qui il taglio non è fosco, ma con una persistente ironia, che fa un eco perfetto all'opera originaria. Le interpretazioni sono caricate a dovere, sublime Gastone Moschin nella parte dell'isterico Pérsikov, non da meno il suo assistente Ivanon (Mario Brusa) e via via gli altri: Alessandro Haber interpreta il giornalista Bronskij, Santo Versace Pankràt, altri ben in ruolo, essenzialmente nomi non troppo noti, dediti principalmente alla televisione. Non lasciamoci però ingannare dall'apparenza disimpegnata, la recitazione è di ottimo stampo teatrale, con i suoi tempi cadenzati, i silenzi e la mimica facciale; è palese la ben nota maggior qualità delle produzioni RAI del tempo, poco spazio alle improvvisazioni e allo sbaraglio generale.
La sua parte dissacrante la fa anche il piacevole tema principale ad opera di Fiorenzo Carpi, ma ciò che si ricorda maggiormente oggi è il comparto scenografico. Ad occhio discretamente povero, probabilmente realizzato in poco tempo, sfrutta in maniera decisa il Chroma key, facendo scorrere, alle spalle dei personaggi, a tratti una Mosca metropolitana sfavillante di luci, in altri veri e propri inserti tratti dai film di Dziga Vertov. DZIGA VERTOV utilizzato per una fiction italiana, penso non si debba aggiungere altro. Sfondi della stessa maniera anche negli altri luoghi di ambientazione, il sovchoz "Raggio Rosso" e la zona di Steklòvsk. Nuovamente dell'avviso che anche questa scelta renda bene lo spirito smaliziato dello scrittore, si è davanti ad un teatrino sarcastico che picchia con fare "pulcinellesco" sul deretano della burocrazia di linea kafkiana e dell'arroganza. Anche le creature frutto degli esperimenti sembrano uscite fuori da un carro allegorico che porta il farfallino di Bulgakov.
Oltre che per l'animo pungente è fedele anche per via della presenza di passi presi pari pari dal libro, narrati dalla voce extradiegetica dello stesso Gregoretti.
Catastrofico e più crudo il finale, con l'immagine di Pérsikov a monito.
Una creazione valente ancora oggi, che non sfigurerebbe come mezzo per far conoscere certa letteratura ai più giovani.
Ora ci permettiamo una digressione: se una personalità come Gregoretti, legata ad una certa ideologia ha trattato quest'opera possiamo renderci conto che a comprendere certe sfaccettature in Italia non siamo in cento (forse in 101...). Bulgakov scriveva questo romanzo nel 1925, anni difficili, in cui alla Rivoluzione russa non aveva seguito un echeggiamento in altri Paesi. La NEP, il sistema economico creato da Lenin viaggiava su un filo, presenziavano individualismi umani a carattere borghese (vedi personaggio di Preobraženskij in Cuore di cane) e di lì a poco sarebbe arrivato il fautore definitivo della controrivoluzione: Stalin. Quindi, prima di strumentalizzare a raffica è bene fare un ripasso generale, condito da sfruttamento della propria materia grigia.
L'invenzione di un uomo, secondo certi dettami, può benissimo essere messa al servizio delle masse, curata da lui stesso, senza usi sconsiderati da parte di chiunque, senza eccessi di mani inesperte ed arriviste.
Il raggio rosso scoperto da Pérsikov è degenerato per via di una mancanza di ponderazione e una sete egocentrica, tutto nel mezzo di una situazione sociale di difficile domatura. Anche per quanto riguarda la scienza, vi è un messaggio vieppiù attuale.
Nota: in questo sede abbiano letto il romanzo tramite l'ottimo volume edito anni fa da Newton, e contenente anche il succitato Cuore di cane e Diavoleide. Segnaliamo che è ancora reperibilissimo entro i soliti canali di acquisto dell'usato o del remainder.

giovedì 28 luglio 2011

pneumatico o rullo?

Rubber
2010

Francia, Angola

Regia: Quentin Dupieux

Scritto: Quentin Dupieux


La Francia, nella produzione di genere, è avanti a noi, alla faccia di vini, Zidane e qualunquismi.
Il regalo che ci offre è un esperimento di metacinema piuttosto estemporaneo, dove seguiremo le gesta di uno pneumatico, proprio così, uno pneumatico, che vaga per sterminate strade californiane, mietendo vittime grazie ai suoi poteri telecinetici ed inseguendo ossessivamente una ragazza, con la polizia alle calcagna.
Seguiremo non solo noi dai nostri schermi, in campo c'è anche un nugolo di spettatori con tanto di binocolo e frasario tipico da sala di proiezione, personaggio e burattinaio indiretto dell'azione, in quanto la sua presenza è l'unico motivo per cui il tutto va avanti; il cinema senza pubblico non ha motivo di esistere, e la cosa è resa nota anche dalla coscienza di fiction più volte mostrata. Spettatori che però subiscono a loro volta le volontà del business, una volta che hanno assicurato la loro presenza, pagato per avere e per vedere (senza posti a sedere, distrutti all'inizio, come un "fast cinema" da consumare velocemente) possono anche venir meno, in Rubber vengono quindi avvelenati. Tranne uno, il tipico spettatore attento, molto attento, troppo, pignolo a tal punto da non accettare dettagli illogici, omaggiati a dismisura nel film, come giustamente ci dice il poliziotto nel prologo. Verrà ucciso non dal business, ma dalla stessa arte cinematografica, nella forma dello pneumatico. La non logica che pervade tutta la pellicola strizza l'occhio alla serie B e all'exploitation, notare anche la locandina dal fascino vintage: il perché la gomma prenda consapevolezza di sé come in un documentario, insegua la donna, uccida senza ritegno non ci viene spiegato, ma è realizzato gran bene, con pregevole uso del dettaglio e di profondità di campo e sfocature, oltretutto tutto girato con una camera digitale e un budget complessivo non esagerato. Simpatici anche gli stereotipi buttati volutamente qua e là, i topoi e luoghi culto; c'è da dire che sembra in tutto e per tutto una produzione a stelle a strisce.
Se la settima arte ha preso forma nello pneumatico, poi in un triciclo e in altre gomme, è normale che, come succede nel finale, puntino verso Hollywood.
Auguriamo fortuna a Quentin Dupieux, musicista da poco anche nel mondo del cinema che conta.

lunedì 25 luglio 2011

l'allucinante riparo

La maison ensorcelée
1908
Francia
Regia: Segundo de Chomón
Scritto: Segundo de Chomón

Continuiamo il discorso incentrato attorno all'anno 1900 per proporre un'altra opera di Chomón, noto pioniere della settima arte e già descritto in un precedente post.
Il comparto formale che gravita attorno al tema della casa infestata, peraltro qui ancora fresco cinematograficamente, è superbo, il maestro degli effetti stupisce per cura di tutti i dettagli, è una festa visiva altamente divertente. Onnipresente il montaggio in camera usato per le apparizioni e sparizioni, idem i mascherini e le sovrimpressioni, tutto ben messo. È però nell'uso del passo uno o scatto singolo, come viene chiamato in questi casi, che il lavoro colpisce: sembra di trovarsi di fronte una pellicola di Švankmajer, non è errato affermare che la sequenza del pranzo, dove il trick trova il suo apice, non sfigura nemmeno ai giorni nostri. Che dire poi dell'onirico finale? La presenza che aleggia sulla magione chiude in bellezza, e fa da antenata a tutte le generazioni del filone "haunted house" che verranno nel secolo ed oltre. La nostra mente di appassionati è volata verso un titolo giapponese, possibile ispiratore dell'Evil Dead di Raimi, Hausu, anch'esso affogato in un mare di fantasie visive e permeato da una certa vena buffa.
Gli attori sfoggiano un make up da clown, piacevole nota comica in un clima tetro, che seppur attualmente grottesco, al tempo poteva aver possibilità di arrecare inquietudine.
La copia visionata è presente al Nederlands Filmmuseum di Amsterdam.

venerdì 22 luglio 2011

sotto mentite spoglie

Le diable au convent
1899

Francia

Regia: Georges Méliès


Pezzo del filone con presenze demoniache, che in questo caso infestano un convento e creano una mistura di sacro e profano.
Si connota per il forte uso della scenografia di stampo teatrale, ricchissima e anche interattiva, non facendo solo da mero sfondo pitturato. Rilevanti anche gli attori in scena, molto numerosi, fra cui lo stesso Méliès. Trucchi, le famose "fantasmagorie", realizzati tramite la famosa interruzione della ripresa, tecnica antesignana del montaggio.
Happy end iconografico!

mercoledì 20 luglio 2011

teletotalitarismo

La antena
2007
Argentina
Regia: Esteban Sapir

Soggetto: Esteban Sapir

Sceneggiatura: Esteban Sapir


Favola distopica che è una boccata d'aria nel panorama fantascientifico del primo decennio del Duemila, pur pescando ottimamente fra fior di classici, omaggiati e riproposti con viva personalità, brilla di luce propria.
Il tema è quello di un città imprecisata, in un tempo non definito ma simile agli anni Venti e Trenta, schiacciata sotto un regime totalitario, talmente forte da essersi appropriato della voce degli abitanti. Essi sono controllati dallo strapotere della comunicazione televisiva, gestita tramite un "cervello" ed elementi di retro tecnologia, con una simbologia opprimente presente un po' dappertutto, addirittura anche nell'unico cibo disponibile, l'esplicativo "Alimentos TV"; unico svago rimangono la boxe e degli spettacoli canori. La star di questi ultimi è "La Voz", unica persona, insieme al figlio, ad essere ancora in possesso della propria voce, sfruttata dapprima come elemento di distrazione, poi, abbinata ad una macchina speciale, per giungere ad un nuovo passo di oppressione... Sarà un tecnico riparatore TV, con sua figlia, la sua ex moglie ed il figlio di La Voz a dover fronteggiare la minaccia, combattendo sullo stesso piano scientifico.
Sperimentale oggetto centrale del film sono i sottotitoli, anche se è riduttivo chiamarli così, sono infatti una vera presenza attoriale che si muove secondo il contesto: "recitano", vivono quasi di vita propria, partecipando all'azione ed amplificano concetti ed emozioni. Sono ovviamente l'unico modo per permettere ai muti personaggi di esprimersi, la comprensione reciproca avviene tramite labiale o vera e propria presenza materiale diegetica degli stessi, che diventa un'estensione della loro mente.
La sperimentazione non finisce qui, e sono evidenti i rimandi all'espressionismo tedesco, così come al Kammerspiel, ai drammatici e ai sentimentali fra le due guerre mondiali, con tanto di musica da grammofono, e al muto in genere. Pullulano i riferimenti alla sci-fi di molti periodi, con Metropolis e 1984 dinanzi tutti. Simpatico l'ammiccare a Viaggio nella Luna e Viaggio attraverso l'impossibile, da segnalare i tocchi di estetica sovietica.
C'è da dire che Sapir ha iniziato la carriera e l'ha impegnata essenzialmente come direttore della fotografia, e la cura posta al comparto visivo è notevole. Il film è in un bianco e nero livido, non molto contrastato, ed è stata data gran importanza ad ombre e sagome in controluce, vieppiù alla composizione dell'immagine, che comprende nei suoi spazi i già citati sottotitoli.
La distopia di una tirannia che manipola le coscienze tramite i media ed il consumismo, privando di altro, continua a turbare le coscienze.

mercoledì 13 luglio 2011

3:25

Paris qui dort
(
Parigi che dorme)
1925

Francia
Regia: René Clair

Soggetto: René Clair

Sceneggiatura: René Clair


È il secondo film scritto e diretto dal cineasta-bandiera Clair, dopo l'esperimento dadaista Intermezzo, dell'anno precedente, mentre, come attore ed assistente alla regia, aveva iniziato qualche tempo prima.
Nonostante i picchi della sua carriera siano stati raggiunti con la commedia, in questo cortometraggio di una mezz'ora si affonda pienamente nella fantascienza, a rimarcare la personaità eclettica dell'autore, mai banale, mai corso dietro al momento cronologico, cosa che a fine carriera peserà, sentendosi fuori posto.
Plot: l'armoniosa Parigi, normalmente affaccendata in mansioni quotidiane, viene "freezata" dall'esperimento di uno scienziato che, tramite un raggio, ha diffuso un sonno permanente in tutta la città, e, come si scoprirà, in tutto il mondo. Rimasti immuni soltanto quelli che si trovavano al di sopra del raggio, a ragguardevole altezza: oltre al professore e a sua nipote, il guardiano della Torre Eiffel e un gruppo in volo su un aereo. Inizialmente regnano desolazione e sconcerto, che poi si trasformano in cupidigia: un'intera città a disposizione! Ma una volta assaporato il materialismo cosa rimane? Freddezza, mancanza di larghi rapporti umani, la noia, ciò che il denaro resosi disponibile non può comprare. Sembra di trovarsi di fronte ad un film catastrofico, ad un episodio di Ai confini della realtà incentrato sulla sparizione della razza umana, tutto abilmente reso da una scena tatticamente spopolata e fotogrammi fissi, probabilmente vere e proprie fotografie o cartoline riprese e montate. Con uno slancio coraggioso Clair fa anche pesare la presenza di una sola donna, occupante dell'aereo, pre-incontro con la nipote del prof., una bellissima e "pariginissima" Madeleine Rodrigue, che non può non stuzzicare gli appetiti degli altri uomini svegli. In proposito citiamo una breve scena, dove il suo viso voluttuoso è l'unica cosa visibile di un'inquadrata in realtà più larga, come se sul resto fosse stato applicato un mascherino; possibile censura, dietro ci saranno stati gli altri personaggi, evidente riferimento alla soluzione di una concessione multipla. Nella parte finale spocchia e bramosia si fanno più forti, ma l'epilogo è dei più romantici.
Un'opera, seppur non virtuosa tecnicamente, il montaggio è infatti analitico, precorritrice, che fonde lo sci-fi più tecnico con la dolcezza di un sentimentale e lo slancio di una commedia.

sabato 9 luglio 2011

buchi, discese e pareti

Le puits et le pendule
1964

Francia

Regia: Alexandre Astruc

Soggetto: Edgar Allan Poe

Sceneggiatura: Alexandre Astruc


Esempio che dimostra la qualità delle produzioni televisive di qualche decennio fa, meritevoli non solo nel Bel Paese, ma anche in altre zone d'Europa, in questo caso parliamo di Francia, con la Radio-Télévision Française (RTF).
Le trasposizioni filmiche di Poe sono centinaia, versioni de Il pozzo e il pendolo sono nate più volte, con quella di Roger Corman (1961) a fare la parte del leone; questo mediometraggio, però, non ne esce sconfitto, e punta tutto sulla massima fedeltà. Complice d'essa è la presenza di narratore omodiegetico, il protagonista, proprio come nel racconto, e le parole sono le stesse del testo, riportate sotto forma di pensiero.
Senza scendere nel dettaglio di una trama generalmente conosciuta, notiamo come la prima parte, quella del prigioniero trasportato nell'antro di tortura, fa un uso pregevole di carrellate, proprio dove i movimenti materiali e i differenti stati emozionali sono più accentuati, mentre nella seconda, quando la vittima è segregata, Astruc si sbizzarrisce con i campi fissi, tanto a testimoniare l'immobilità, quanto la variazione di pensieri. Poi, personalmente, leghiamo il bianco e nero alle atmosfere "poeniane" maggiormente del colore e, nota curiosa, la narrazione in francese non stona, causa l'uso abbastanza intenso che l'autore di Boston faceva di quella lingua.
Musiche e canti apparentemente liturgici (di Antoine Duhamel) e suoni ben in evidenza, rimbombanti come nella mente del personaggio, fanno da cornice ad un lavoro pulito, adatto a dar l'idea del mondo dello scrittore. Il regista tornerà nuovamente su di lui con Histoires extraordinaires: La chute de la maison Usher, sempre per la TV, nel 1981.

lunedì 4 luglio 2011

la mostruosa muraglia

Spettri e fantasmi cinesi
Autori vari

Theoria


Particolare è l'approccio, nella cultura cinese, alle creature sovrannaturali, così come le loro caratteristiche. La vita di chi ha a che fare con loro è sì scossa, ma la reazione è quasi sempre pronta, molte volte si riesce a gestirli e spesso anche a dominarli, vengono resi paradossalmente quotidiani. La catalogazione di essi si perde nelle nebbie dei millenni, i dati provengono da enciclopedie, dizionari imperiali, dagli storici, dai filosofi, nonché è il vento delle religioni a proiettarli verso il futuro. Il libro, a cura di Giorgio Casacchia e Patrizia Dadò, riesce a fare un certo ordine almeno entro i ristretti termini che vuole trattare, dividendo le creature per tipo: gli yaksha, sorta di orchi, gli "esseri pelosi", simili allo Yeti, gli spettri, i genî dei monti e dei boschi, demoni generati dalla natura, e le apparizioni femminili. Molti degli autori non suoneranno nuovi a chi ha un minimo di dimestichezza con la cultura cinese; svettano Feng Meng-lung e Yuan Mei, poi c'è P'u Sung-ling, ricordato anche qui, tutti e tre vissuti fra il 1500 ed il 1700, ma ve ne sono anche di più antichi e più recenti.
I racconti sono più che altro degli aneddoti, molto molto brevi, occupano spesso due o tre pagine, o anche meno, e vanno subito al dunque.
Nella prima tranche gli Yaksha vengono scacciati dall'uomo, bastonati, ma in Messer Chang, di Ch'ang-an l'essere ha una accezione positiva e riesce a far catturare dei briganti assassini.
Fra gli essere pelosi, invece, i "buoni" sono nella metà degli scritti, e presenziano in La donna pelosa, L'uomo peloso e L'essere peloso di Kuan-tang usa l'uomo come esca; nel primo l'amore trionfa anche fra "diversi", negli altri due le entità aiutano gli umani.
Più lunga e complessa la sezione sugli spettri e bellissimi sono due racconti: L'antro degli spettri e Storia di tre spiriti maligni di Lo-yang. L'impiccagione dello spettro è molto vicino a certe leggende a noi più chiare, con la creatura che non trova pace e ripete un gesto terreno. Fra gli altri riescono ad essere protagonisti anche latrine, e in uno un fantasma viene curato da un medico, evidente segno di accettazione da parte dell'uomo, senza isterismi di sorta.
I demoni della quarta sezione portano siccità e malattie, ma sanno anche scrivere e deliziarsi con la musica, altresì essere sensuali.
Nell'ultimo raggruppamento ci sono le donne, donne che nello stato di trapassate riescono ad imporsi, cosa che non riusciva in vita causa status inferiore imposto dalla società. Si vendicano e seducono (nell'egregio Lady Ventidue), assumono la tipica sembianza, nell'ambito cinese, di volpe e perpetrano violenza. Solo in un racconto, Il fantasma fritto nell'olio, l'entità femminile viene sottomessa ed eliminata.
Volume ottimo, con storie difficilmente reperibili altrove e buono per farsi un'idea su quel tipo di leggende. Appartiene alla collana di Theoria Biblioteca di letteratura fantastica, e con un po' di attenzione è reperibile in librerie fornite di testi non più ristampati, bancarelle e similari.

venerdì 1 luglio 2011

inserto

i
2007

Regno Unito
Regia: Luke Losey

Scritto:
Luke Losey

Occhio sulle espressioni propone un corto dove è protagonista un occhio umano, attore unico.
Completa dedizione al dettaglio, luci, rumori fuori campo e... basta, tutto qui, e ne è venuto fuori un thriller altamente emotivo. Ci ha messo del suo anche la pupilla e il naturale sistema neurovegetativo, tocco di autentica naturalezza in fiction.
Un omaggio all'organo tanto considerato da cineasti di ogni sorta, specchio dell'anima e rappresentante d'emozioni.

domenica 26 giugno 2011

fascino dall'aldilà

倩女幽魂 (Ching nu yu hun) 
1960

Hong Kong

Regia: Han Hsiang Li
Scritto: Songling Pu, Yue-Ting Wang

Il cinema di Hong Kong andrebbe riscoperto soltanto per il suo animo eclettico, ha saputo infatti fondere diversi generi con grande maestria: horror con forti elementi d'azione, wuxiapan con tratti macabri ed altro. Ching nu yu hun è un mix di fantastico, sentimentale ed orrore, con una storia di Songling Pu ripresa poi anche nel più celebre e recente Storia di fantasmi cinesi, primo di una trilogia di cui probabilmente parleremo anche in futuro.
Soave, con il suo incedere lento che però non annoia, merito anche della viva fotografica che trasporta lo spettatore in un ambiente etereo e fiabesco. Questo, che varia di scelta cromatica secondo tensione e calore del momento, è palesemente "cartonato", ma ciò non influisce affatto sulla resa. Parrà un accostamento anomalo, ma a tratti sembra di vedere comunanze con i lavori più noti del maestro Mario Bava.
I costumi ed il trucco dal sapore tradizionale ornano i frequenti primi piani, mezze figure, mezzi busti e, tecnica non sempre sfrutatta a dovere, piani americani, in questo caso fondamentali per l'ammirazione delle vesti. Alle seguenti maestrie aggiungiamo anche la professionale gestione delle carrellate; niente zoom esagerato tipico del periodo!
La storia parla di spettri capaci di amare esseri umani e demoni che invece fanno loro del male, con eroi pronti a risolvere le brutte situazioni.
Prodotto dallo Studio Shaw, che con i suoi film di kung fu e wuxia, è diventato il simbolo del cinema hongkonghese.
Conosciuto con il titolo internazionale di The Enchanting Shadow e, nonostante la lingua principale di Hong Kong sia il cantonese, l'audio è in mandarino.

martedì 21 giugno 2011

Rapporto Confidenziale - giugno 2011


Nuova uscita di Rapporto Confidenziale, rivista di cultura cinematografica di cui si è parlato post addietro. Chi scrive è presente con una recensione di Dyal Dog: Dead of Night, il deludente film ispirato al personaggio Sclavi.

Buona lettura.

domenica 19 giugno 2011

letture fra sonno e veglia

Prezít Svuj Zivot (Teorie a Praxe)
2010
Repubblica Ceca, Slovacchia, Giappone
Regia: Jan Švankmajer
Scritto: Jan Švankmajer

Ultima prova del maestro, presentata da egli stesso a Venezia 67, in anteprima mondiale.
Come da opera venuta fuori da un rappresentante della corrente surrealista conviene, è una rappresentazione dell'unicità tra sogno e realtà, saldamente legati e comunicanti, con il protagonista che vive una relazione indotta dal sonno ma coincidente con la materialità. Švankmajer si ripropone nuovamente, dopo Sílení, in un prologo metacinematografico in cui illustra ciò che andremo a vedere, compresa la tecnica d'animazione utilizzata, e lo fa ironizzando, nonché spiazzando lo spettatore, che non avrà modo, se giustamente posto, di catalogare il film sotto una tematica. Jan la chiama commedia psicanalitica, ma il termine nasce solamente dal fatto che vi è uno psicanalista; è tutto automatismo, inutili sono gli sforzi di esegesi. Curioso come anche nell'introduzione stessa compaiano i tratti svankmajeriani, come l'infanzia, e elementi della pellicola, vedi l'impossibilità dei sogni di essere capitalizzati.
La citata tecnica è il "cutout", collage di foto poi animato a passo uno, una sorta di richiamo alla tradizione da parte dell'artista, forse ancora più libertina rispetto agli effetti delle precedenti produzioni. Ne è venuto fuori qualcosa di preciso, cosa essenziale per descrivere il perenne processo di inconscio/realtà.
Di gran stimolo continuano ad essere gli oggetti, sempre carichi delle emozioni vissute precedentemente, utili e cruciali nell'avanzamento dei protagonisti. Stessa cosa per i suoni, e vitale la comunicazione tattile, le composizioni delle superfici spadroneggiano e sono percepibilissime anche senza avere la possibilità reale di usufruirne.
Esempio di rappresentazioni: angurie, simbolo della rivelazione, del lasciarsi andare; uova, strumento di collegamento della coincidenza del sogno con la realtà. E ricordiamo anche che, come diceva Georg Christoph Lichtenberg, solo l'unione di questi ultimi due elementi può creare la pienezza della vita umana.

Moviement Magazine
Jan Švankmajer

Autori vari
Gemma Lanzo Editore

Si vuole ricordare che è disponibile da qualche mese questa pubblicazione, quasi l'unica in lingua italiana dedicata al maestro e di gran rilievo per i contenuti. Oltre al saggio di apertura del sottoscritto vi sono dei testi di sommo interesse: l'essenziale articolo di David Sorfa (L'oggetto del film in Jan Švankmajer), utile per scoprire gli stilemi del mondo di Jan, quello di Timothy R. White e J. Emmett Winn, Il domani potrebbe salvarti. Jan Švankmajer e le storie di Edgar Allan Poe, che si focalizza sulle produzioni ispirate allo scrittore di Boston, ma spiegate meglio grazie ad un affondo nelle realtà storico culturale del tempo, Michael O'Pray con la ricorrenza di Rodolfo II e Arcimboldo (Jan Švankmajer e l'effetto Arcimboldo) e una dotta "lezione" di Adrian Martin, assimilabile avendo alcune delle pellicole materialmente davanti. Poi c'è l'introspettiva analisi di Prezít... a firma di Michele Faggi (Discesa all'inferno e resurrezione. Lo spazio tra sonno e veglia in Surviving Life, Theory and Practice) ed un gran finale: l'intervista dell'artista da parte di Peter Hames e il suo decologo, in esclusiva per il libro/rivista!